LIBRI Stoner

Nel libro di Williams brandelli di una vita emozionante e antieroica

    di Antonio Di Dio

Stoner (Fazi editore, 2012), di John Edward Williams. Pubblicato per la prima volta nel 1965, dove riscosse poco i favori di critica e pubblico, rivive i fasti dopo molti anni di silenzio quando la Vintage Classics nel 2003 e il "New York Review of Books Classics" nel 2006, decidono di riportarlo in vita con una nuova pubblicazione. Romanzo che, grazie al passaparola degli utenti e dei lettori, è stato riscoperto come un’opera dal valore letterario sorprendente.

Stoner è un figlio, un professore, un marito, un padre e un amante. Figlio di contadini a cui la vita non ha mai chiesto altro se non sporcarsi le mani, nel 1910 si iscrive all’università di Columbia frequentando il corso di agraria, per poi passare a letteratura inglese dove cresce sia culturalmente che professionalmente, distruggendo l’idea dei suoi genitori di tornare nei campi una volta laureato. Diventato professore di letteratura inglese presso la Columbia University, incontra e sposa Edith, da cui nonostante il loro amore mai nato, ha una bambina di nome Grace, figlia remissiva, loquace e introversa, che soccombe giorno dopo giorno sotto l’ira funesta di una madre psicopatica e ingombrante, come d’altro canto suo padre. La vita mediocre di William si muove tortuosa tra i due conflitti mondiali, senza mai destare, nonostante il lettore lo voglia con ogni forza, il torpore caratteriale del nostro protagonista. William Stoner è semplicemente un uomo, un eroe d’altri tempi, che nel silenzio dell’accettazione di una vita, che continua a morderlo come un cane affamato riducendolo pian piano a brandelli, riesce ad emozionarci. 

La narrativa di John Williams semplice, diretta e priva di orpelli, riesce a coinvolgere il lettore portandolo sulle montagne russe di una vita a tratti raccapricciante e a tratti onesta, vera, dura come la terra che suo padre colpiva ogni giorno (“A trent’anni suo padre ne dimostrava già cinquanta; piegato dalla fatica, fissava disperato l’arido pezzo di terra che in un anno dava da campare alla sua famiglia”), dannatamente dolce come quando Stoner ripensando alla figlia nelle battute finali: “Avrebbe vissuto serenamente, felice nella sua disperazione bevendo sempre un po' di più, anno dopo anno, per stordirsi e non pensare al nulla cui si sarebbe ridotta la sua vita. Fu felice che avesse almeno quello”. Nello scorrere delle pagine ci sentiamo come spettatori che inermi guardano il lento abbandonarsi di un uomo che non sembra meritare tutto ciò, ci arrabbiamo con lui, vorremmo colpirlo come a scuoterlo da un torpore dei sensi, e invece lui sembra guardarci negli occhi e nonostante tutto sorriderci come a dire: ci può essere felicità anche là dove voi non riuscite a percepirla, anche nel silenzio.

E allora accettiamo la rassegnazione come una delle virtù più alte dell’uomo, come il paradosso di un coraggio che urla senza farsi sentire, che passa inosservato e non fa clamore, William Stoner non ha il senso dell’impresa, eppure questa storia ci emoziona, ci tiene incollati alle pagine senza distrarci. Ci toglie dal mondo per immergerci in una temporanea sospensione di incredulità tale da sentire nell’aria l’odore delle aule, dei suoi rimproveri e dei suoi silenzi, di quella morte mai raccontata con tanta umanità. 





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