Lettera ai signori del dopoguerra

Governo inadeguato. Servono uomini eccezionali in tempi eccezionali

    di Max De Francesco

Gentilissimi e ignoti signori del dopoguerra, non conoscendo ancora né i vostri nomi né le vostre referenze, vi scrivo dopo venti giorni di giusta detenzione domestica, responsabilmente consumati nel carcere Napoli, padiglione Chiaia, quinto piano, cella 19, con un occhio vigile sull’anima spaesata e un altro alla finestra tra un toppa di cielo che cambia colore e altre finestre scucite dalla nostalgia. Come ogni recluso - immagino che anche voi conosciate quanto sia spiazzante un tale isolamento “a tempo indeterminato” - seguo un personale piano di sopravvivenza quotidiana alla dittatura “benefica” del distanziamento sociale che, senza raggiri di parole, somiglia tanto a una prova generale dell’estinzione umana. In questa situazione di sospensione e restringimento di libertà, che supera qualsiasi copione di disaster movies, ognuno di noi si è scelto una via di fuga: chi frequenta libri, chi colleziona serie tv, chi studia tutorial gastronomici e occupa la cucina come Cannavacciuolo, chi recupera sogni, chi videochiama amici lontani e compagni di scuola riacciuffati da un album sepolto, chi s’allena con piglio ossessivo come se dovesse andare alle Olimpiadi, chi dorme, chi riordina il salotto, chi si scopre giardiniere, chi balla con l’aspirapolvere, chi colora un arcobaleno, chi brandeggia chitarre come un mariachi, chi fa Pino Daniele dai balconi, chi si taglia i capelli da solo, chi lavora più di prima, idolatrando lo smart working anche se la connessione cincischia e il modem sclera, chi lancia video sui social mentre palleggia con i rotoli di carta igienica, chi alza il gomito non per arginare uno starnuto ma per assopirsi con un curativo bicchiere di vino, chi prega, chi aggiorna diari, chi riposiziona suppellettili, chi spettina cani e ragiona coi gatti, chi spara! spara! nell’ultimo sanguinoso videogame, chi ha rispolverato il Monopoli piazzandosi con la coda del pomeriggio tra imprevisti e probabilità.

Quanto ancora potrà reggere l’evasionismo intensivo che abbiamo adottato per necessità? Troveremo altre iniziative creative per alimentarne la durata, ma come ogni effetto anestetico è destinato al dileguamento. Con un orizzonte imposto che va dal frigorifero al water, caracollando tra un #andràtuttobene e un #celafaremo, quando un’altra mattina si apre improduttiva e un’altra notte si chiude senza prospettive, avvertiamo terribilmente quanto si stia radicando dentro una drammatica consapevolezza che in tutti i modi vorremmo estirpare, ma è insistente come le lezioni su come lavarsi le mani di Barbara D’Urso o il rumore di cloaca dei galli microfonati e dei virologi dell’anima che, a turno, ammorbano dagli ospedali televisivi.

Una consapevolezza che spacca gambe e mina i domani, crescendo a dismisura a ogni apparizione in orario marzulliano di un premier ben pettinato; a ogni bollettino di guerra della spaurita Protezione civile; a ogni emanazione di un decreto che, una volta scaraventato nella mischia, viene in un colpo di tosse ritirato, ribadito, smentito, corretto, ricorretto, negato, semiconfermato; a ogni nuova autocertificazione per la circolazione nel “mondo di fuori” che è scritta e pensata non da esseri umani ma da entità mutanti; a ogni cortocircuito comunicativo e organizzativo tra potere centrale e Regioni; a ogni inascoltato richiamo all’unità europea che mostra come una nidiata di paesi alleati sia un covo non più asintomatico di vipere; a ogni pronunciamento della parola “guerra” che, in mancanza del calcio, è diventato lo sport nazionale preferito da chi ne sottolinea la gravità con la solennità dei perplessi e il fallimento negli occhi.

Consapevolezza. Un macigno fulminante. La presa di coscienza che chi governa la nave Italia in questa tempesta perfetta, seppur animato da slanci volenterosi, appare sprovvisto di bussola, inadeguato per tirarci fuori e indovinare la rotta giusta. Io non mi fido. Avverto che chi ha il peso e il privilegio di guidarmi, è un nocchiero privo di visione, è quadro di cedimento. Non mi fido. Resto a casa, buono buono, e faccio i conti con la sgangherata pazienza, con la sensazione devastante della “non azione”, con il pensiero fisso alla “prima nota cassa” sospesa della mia impresa culturale, fondata quasi vent’anni fa, condotta con la mano sul cuore e la tenacia delle idee nei mari burrascosi del settore editoriale insieme a soci appassionati e a un prezioso equipaggio, costretta oggi all’improduttività, al rimando di eventi “a data da destinarsi”, allo stravolgimento del piano annuale di pubblicazioni, alla contrazione delle vendite dei libri, ai mancati incassi per l’annullamento delle presentazioni, alle inevitabili ripercussioni sulla ricerca pubblicitaria, all’interruzione di lavori in corso che si basavano sull’aggregazione e l’incontro “dal vivo” e non virtuale tra persone, culture. Io non posso fidarmi di tali dispensatori di guerra, soloni allo sbaraglio e registi del “vieni avanti decretino”.  Se lo faccio, disonoro me stesso e calpesto tutta la fatica e l’amore messi dentro la mia impresa, relegata da oltre venti giorni nella prigione statale dell’indeterminatezza. Mentre cadono medici come mosche d’estate, finiscono vecchi come biblioteche bruciate, s’ammalano speranze ritenute immortali, si raccontano storie di eroismi e incoscienze, proliferano almanacchi di frasi fatte e bugie certificate, una sola certezza supera la prova della disperazione: affidare a uomini eccezionali in tempi eccezionali la ricostruzione economica e sociale che ci aspetta.

Tenetemi ancora a casa, costringetemi all’inattività per tutto il tempo che considerate necessario, ma datemi ora, ORA!, i signori del dopoguerra. Ignoro i vostri i nomi, conosco la vostra missione: parallelamente alla crociata per strappare la corona al virus, va programmata oggi stesso la riorganizzazione del sistema Paese, settore per settore, azienda per azienda, bottega per bottega, partita Iva per partita Iva. Anche se le campane a morto toglieranno per giorni il fiato ai cieli, il dopoguerra va preparato a guerra in corso. C’è bisogno di voi, signori del dopoguerra, affinché ci facciate dimenticare la misera autorevolezza di chi al momento ha il cerino del governo in una mano e nell’altra la calcolatrice delle visualizzazioni. Che vi chiamiate draghi o pinguini, non m’importa: ciò che mi sta a cuore è che siate uomini e non caporali, abbiate competenza, concretezza, una buona dose di visionarietà, siate slegati da logiche politiche, liberi dal morbo del consenso elettorale, tenaci nel rinegoziare con l’Europa o fregarvene pur di salvaguardare i confini del nostro patrimonio, attenti conoscitori di chi lavora nella fragilità finanziaria, identitari quanto basta per difendere l’Italia delle meraviglie e delle straordinarie operosità. Siate samurai del buon senso di tutto il Belpaese, senza praticare il vizio antico dei favoritismi locali e dei feudali particolarismi.

C’è bisogno di voi, non abbiamo più tempo. Ditemi oggi come vestirmi per il rientro; comunicatemi la chiarezza dei numeri, ma dopo avermi donato rassicurazioni all’anima; combattete senza pietà il virus della burocrazia perché non vi troverete mai soli; liberate energia, applicate la legge del coraggio, investite nel capitale delle idee più che in miopi “redditi di emergenza”; scovate e denunciate gli espedienti criminogeni delle banche; allontanate i ladroni delle ricostruzioni e spezzate i girotondi degli sciacalli sulle macerie; realizzate un piano straordinario di sospensione delle tasse e immettete decisiva liquidità nel tessuto vitale delle piccole e medie aziende, perché oltre all’ottimismo sono i soldi quelli che devono circolare. Rianimare. Fate questo e fatelo presto, prima che le milizie dell’apocalisse economica radino al suolo le nostre tasche, riducano la luce, costringano ad azzerare progetti e risparmi.

Dalla mia trincea casalinga, mentre si combatte e si muore nelle corsie, io sono soldato di niente, disarmato per decreto, neutralizzato, eremita in città, disattivato come un interruttore per il bene della Nazione, involontario disertore, consumatore di tisane e serie tv, immerso in studi e febbrili letture per sapermi vivo. Che si lavori al dopoguerra a guerra in corso, affinché io possa ritornare al più presto soldato produttivo, prepararmi così al nuovo mondo in cui persisterà la nostalgia degli abbracci in una società più fobica, più diffidente, senza strette di mano. Fatemi sentire già da oggi protagonista della Ricostruzione. C’è bisogno di voi, il tempo è esaurito. Insediatevi adesso, signori del dopoguerra, per far sì che, quando potremo mettere la testa fuori, lo scenario non sia “nessuno potrà pagare nessuno”. Qui ci giochiamo tutto. Le nostre aziende, il nostro entusiasmo, i nostri ultimi sogni.





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