El Cholo, quando il mito diventa film
Su Prime Video l'allenatore dell'Atletico si racconta in 'Simeone - Vivir partido a partido'
di Mario Vittorio D'Aquino
“Si se cree y se trabaja, se puede” (in italiano se si crede e si lavora, si può) è a tutti gli effetti il motto che concentra l’universalità filosofico-calcistica di Diego Pablo Simeone detto El Cholo che da dizionario sarebbe l’incrocio tra indios e popolazione bianca. Di fatti i suoi lineamenti puramente latini si contrastano impeccabilmente con i suoi occhi azzurro-verdi. Duro e focoso centrocampista di Velez, Pisa, Siviglia, Inter, Lazio la sua persona però è sempre stata accostata a quella dell’Atletico Madrid con il quale è riuscito a vincere il massimo campionato spagnolo sia da giocatore che da allenatore, ruolo che attualmente riveste alla guida dei colchoneros (le teste nere), nomignolo con cui vengono appellati i membri della seconda squadra di Madrid che da sempre ha subito un certo complesso di inferiorità rispetto al blasonato Real tanto da valergli anche l’attributo di pupas (sfigati), coniato dal loro stesso ex presidente Vicente Calderòn.
Un sentimento di subordinazione totalmente cambiato quando El Cholo si è seduto sulla panchina dell’Atletico, da oltre un decennio. Prime Video ha voluto ricordarne le gesta nella miniserie Simeone – Vivir partido a partido, in cui il tecnico argentino apre le porte di casa sua (letteralmente) e ricorda retroscena, racconta aneddoti e accompagna con la sua solita personalità il flusso della storia nata nel quartiere Palermo di Buenos Aires. Assieme ai vecchi fasti, con rimbalzi cronologici a mo’ di fisarmonica, viene implicitamente rivissuta l’elettrizzante stagione de La Liga 20-21 che ha visto l’Atleti campione all’ultima giornata.
Nel corso della serie personaggi calcistici di grandissimo spessore spendono parole al miele per l’allenatore: alcuni suoi ex giocatori come Fernando El Nino Torres, Diego Costa, Diego Godin, Juanfran e Gabi; giocatori che allena oggigiorno Luis Suarez, Antoine Griezmann, Koke e Marcos Llorente; rivali storici come Cristiano Ronaldo, David Beckham o Sergio Ramos; alcuni ex suoi compagni di squadra come Ronaldo Il Fenomeno, Juan Sebastian Veron e Javier Zanetti come anche colleghi del calibro di Jose Mourinho e Pep Guardiola.
Il primo lo ha definito “animale da competizione” vista la sua ossessiva ricerca di un rivale per potenziare i suoi limiti ma soprattutto il suo lavoro. Il secondo, sebbene le concezioni calcistiche siano agli antipodi, ha paragonato il fenomeno Simeone nella sfera Atletico Madrid a quello che “ha rappresentato Johan Cruijff per il Barcellona”. C’è da fidarsi.
Anche perché dietro a quel giocatore focoso ma magnificamente pragmatico, diventato poi un grandissimo coach, è nato un filone: il cholismo. Un inno all’impegno, a quell’umile sacrificio proletario e operaio che però si dà forza e diventa credibile, al limite del rivoluzionario. Il cholismo incarna infatti la forza del ribelle e il pragmatismo del vincitore, riuscendo a coniugare due mondi che molto spesso non si incontrano. E’ il trionfo del sacrificio, dell’abnegazione di sé per un ordine superiore, della metodicità del proprio lavoro, dribblando gli ostacoli della vita che affondano sempre duro i loro tackle.
Diego Simeone da giocatore prima e da allenatore poi ha sempre rappresentato il combattente tra i combattenti, un Leonida con i suoi trecento spartani. Una concezione calcistica maturata sotto grandi allenatori come Bilardo e Luis Aragones al Siviglia, Boskov alla Lazio, Bielsa con la maglia della Nazionale argentina. Un impasto tra la tanto decantata garra uruguagia e la capacità di saper soffrire tipica delle sue parti.
Uno dei capi di imputazione che spesso viene fatto al Cholo è quello di lasciare poco spazio al colore della fantasia nel suo gioco, prediligendo un grigio quanto comunque affidabile “catenaccio e contropiede”. Tesi accettabile all’inizio della sua carriera. Alla soglia dei 52 anni, l’evoluzione della trama tattica e soprattutto dell’interpretazione tecnica del suo Atletico è adesso molto più prona ad una più globalmente accettata concezione calcistica volta allo spettacolo, nonostante questa transizione rischi di pagare in termini di risultati.
Non scarseggiano momenti di romanticismo negli episodi della serie, frangenti di ammirazione mista a commozione come quando ricorda la figura di Maradona (suo compagno al Siviglia e in Nazionale), attimi in famiglia che lui chiama “squadra”, la sua adorazione per il padre che lo segue in tutte le partite più importanti: dalla vittoria del titolo quando guidava l’Estudiantes, a quella del River, per poi arrivare ai tanti successi avuti con i colchoneros mai abituati a vincere così tanto in Spagna e fuori, così come le cocenti delusioni soprattutto nelle due finali di Champions contro i rivali del Real arrivate in modo molto beffardo.
Con Simeone, quindi, è nato un fenomeno, un’idea, una filosofia vincente applicabile in campo così nella vita. Pochi, ma veramente pochi, personaggi della storia sportiva possono vantare di aver influito così tanto il modo di pensare degli “addetti ai lavori” e di entrare così profondamente nei cuori dei semplici appassionati.