Non servono gli occhi per essere poeta

La cecità, la Russia, il terremoto a L'Aquila: intervista ad Alarico Bernardi

    di Roberto Rosano

L’appuntamento con Alarico Bernardi è previsto per le cinque del pomeriggio, in un bar di Mondovì. Mi ha invitato a prendere un caffè con lui e sua moglie, Teresa. Ha un gran sorriso sul volto lucido e tondo, una cordialità nella voce e persino negli occhi. Quegli occhi che non vedono più. È un poeta, Alarico Bernardi, ed è cieco. Cieco come Omero, come gli aedi della Grecia classica, che così non potevano essere distratti da niente e da nessuno, e conoscevano il nocciolo segreto delle cose, che sfugge alla vista. Abbiamo organizzato l’incontro al telefono, in una lunga chiamata iniziata con una gaffe da parte mia. «Alarico», gli ho detto, «guardi che noi ci conosciamo già. Sono un ragazzo alto, moro...». Mi ha risposto placidamente: «Sì, solo che io non ti vedo». Sono rimasto in silenzio, raggelato dall’imbarazzo. Per fortuna, è troppo intelligente per farmelo pesare. Comincia a ridere ed io con lui. L’imbarazzo si dissolve in quelle risate. Quando ci incontriamo, al bar, mi parla di tante cose, ma di nessuna in particolare, senza mai essere inconcludente. Una magia di cui solo i poeti sono capaci. Teresa è al suo fianco e mi guarda anche per lui e sono sicuro che gli riferirà che faccia ho, che espressione ho fatto quando mi ha detto che è stato in Russia o che ha vissuto il terremoto de L’Aquila. Mi ha raccontato tante storie Alarico, amori, viaggi, tradimenti... Mi sono chiesto come avesse potuto vivere così intensamente senza l’uso della vista. Mi sono sentito un miserabile. Volevo chiederglielo, ma poi ho capito da solo, guardandolo mentre si godeva il suo marocchino caldo, sereno e felice, che la vita eccede, sbalordisce, tanto più è difficile e che la sua battaglia, Alarico, l’aveva vinta cercando di vivere come tutti gli altri e finendo, per somma beffa, col vivere più di loro.

Alarico, di recente ho sentito una distinzione tra il concetto di assenza e di perdita. Mi spiego meglio: Stevie Wonder è non vedente dalla nascita, quindi ha sperimentato l'assenza, Rey Charles, invece, ha perso la vista ad otto anni. Lei ha sperimentato la perdita o l'assenza?

«Purtroppo ho sperimentato la perdita, proprio come Ray Charles, ma in età avanzata, se si può definire con avanzata un’età compresa tra i 40 e i 45 anni. Causa della perdita: retinite pigmentosa congenita»

La poesia, Alarico, si nutre di immagini, le metafore sono spesso accostamenti di visioni, di concetti. Mi sono chiesto con quanta e quale voracità abbia cercato di vedere tutto il possibile prima del buio...

«Sì, è vero, caro, ma, vedi, la poesia si nutre anche di stati d’animo. Certo le immagini sono, almeno per me, elementi fondamentali della poesia e della narrativa. I luoghi, i colori, la vegetazione... riporto alla mente tutto ciò che ho visto prima che qualcuno o qualcosa spegnesse il mio sole».

Quali sono le immagini che le sono più care, che serba più gelosamente nella memoria?

«Tutte, mi creda, tutte. Tutte le immagini sono più o meno care per chi ha perso la vista. Però, se mi ci fa pensare, le direi i paesaggi, le forme plastiche di certi animali allo stato brado e poi l’aspetto delle persone conosciute prima della “perdita”. Me le ricordo giovani e nella mia memoria sono rimaste così, eternamente giovani»

E volendo dare una risposta un po’ meno poetica, in prosa, insomma...

«I tramonti, il gioco del sole morente dietro le cime innevate dei monti. La maestosità del lupo, l’agilità dei camosci, i coppi vermigli delle case di montagna, i cavalli che fiutano la tempesta sulla battigia. Per le persone, invece, i miei genitori e i miei figli».

Mi ha dato un’altra risposta poetica! Deformazione professionale, non protesto. Però, mi permetta di insistere, per esempio suoi genitori... Com’erano, chi erano?

«Vede, sono nato in una famiglia in cui gli affetti erano fondamentali, ma anche le parole onore e rispetto avevano un significato preciso, addirittura maniacale. Sa, papà era l’ultimo rappresentante di un’aristocrazia ormai in via di decadimento, aveva modi signorili ed inappuntabili, un carattere ferreo, determinato. Anche lui ha perso la vista come me, verso i quarant’anni. Mamma, invece, riusciva ad addolcire l’atmosfera con la sua indole semplice e tollerante, tipica della gente del popolo. Ho avuto un’infanzia ed un’adolescenza serene, abbastanza serene»

Lei crede in Dio, Alarico?

«È difficile rispondere con un “sì” o con un “no”. Sono scettico, cioè un ricercatore. In ogni caso, sarei uno sciocco se non credessi a qualcosa o qualcuno, ad un’origine del nostro mondo imperfetto. Per me, gli esempi valgono più delle parole e, a dir la verità, di esempi veri e propri non ne ho incontrati molti. Le filosofie orientali, però, mi affascinano, come le testimonianze disinteressate di religiosi più vicini a noi geograficamente».

Le pongo una domanda un po’ delicata, me ne scuso in anticipo: la sua malattia è congenita, questo immagino lei lo sapesse. Non l’ha mai sfiorata il timore di avere dei figli che potessero ereditarla?

«Una volta ho chiesto a mio padre: “Perché mi hai concepito, sapendo della malattia?”. Una domanda un po’ cattiva da parte mia. I figli in realtà non si fanno da soli. Spesso, s’incontrano persone che desiderano figli ad ogni costo e a qualsiasi età. Natura impellit? Non so rispondere, ma sono certo di una cosa: la mia vita è stata ed è qualitativamente normale, simile a qualunque altro normodotato. Probabilmente è questione di coraggio o d’incoscienza… chissà!»

A proposito della pienezza e bellezza della sua vita, sulla quale non ho alcun dubbio, c'è una donna al suo fianco, si chiama Teresa, mi pare...

«Sì. Devo confessare che sono sempre stato additato come uno “sciupafemmene”. Ho sempre avuto un debole per il gentil sesso. Ho al mio fianco una donna stupenda: amica, amante, confidente, complice e… ottima cuoca! Teresa è la prima delle mie lettrici e fan, ma anche la mia critica più spietata».

Teresa, tra l’altro, è una donna di origini polacche, viene da un paese cattolicissimo. I polacchi hanno un temperamento volitivo, passionale, come noi meridionali. Vero, Alarico?

«Sì, Teresa è polacca. E pensi che è stata proprio lei a convincermi a pubblicare “Occhiali da sole”, un thriller che dormiva nel cassetto e che sarebbe rimasto lì chissà per quanto tempo. È una musa ispiratrice, attenta ad ogni mio cambiamento d’umore e conosce benissimo la condizione dell’handicap».

Si parla spesso dell’amore a prima vista, si dà un'enorme importanza all'aspetto fisico della persona di cui ci si innamora. Lei invece non ha mai visto sua moglie nel senso convenzionale, vero? Però sono sicuro che si è innamorato con altri “occhi”. Con quali?

«L’occhio vuole la sua parte, senz’altro, (ride, ndr) ma, sa, nel mio caso supplisce l’orecchio. Ci faccia caso, una voce gradevole è quasi sempre indizio di un corpo altrettanto gradevole. Il resto si lascia al tatto. Rasento la fantascienza, eh?»

No, no, sono d’accordo. Oddio, sul fatto che una bella voce sia la spia di un bel corpo, un po’ meno... Comunque, Teresa, come l’ha conosciuta?

«Viaggiavo in treno dal Piemonte all’Abruzzo e un bel giorno mi sono imbattuto in Teresa. Tornava in Lombardia, dopo un periodo di ferie. Io digitavo sul cellulare degli appunti per un mio racconto breve e lei, ascoltando i vari paragrafi, si è incuriosita. Dal bastone bianco ha capito che non vedevo, così si è scandalizzata per il fatto che venissi trasportato come un pacco senza valore da un treno all’altro. L’ho rassicurata, ma lei continuava a non accettarlo, ha deciso di seguirmi nel viaggio sino a Mondovì. E nel frattempo, ha letto quasi tutte le poesie della mia prima raccolta di versi, “Con una poesia…”».

Le ha dedicato qualche verso? Immagino di sì...

(Il poeta fa una breve pausa, prende fiato, ndr) Io, Teresa, in quel mare annegavo/in un gorgo impietoso ed oscuro,/e la vita intanto affidavo/ai fantasmi d’un cieco futuro./La tua voce, gentile e sincera,/i silenzi e l’allegra risata/han fugato la tetra atmosfera.

Eh, sì, che era uno sciupafemmine, Alarico. Sarà andata in brodo di giuggiole, Teresa... Adesso, però, devo evocare un ricordo molto meno piacevole. È il 6 aprile 2009, ore 3.32. Il terremoto dell’Aquila...

«“Intender non lo può chi non lo prova” rispose Didone ad Enea parlandole della distruzione di Cartagine. Quei 34 secondi sono sempre nei miei incubi, non vogliono lasciarmi. Per fuggire da quest’orrore mi sono trasferito qui in Piemonte, presso la sorella di mio padre. Ho annaspato tra mille pensieri, mi sembrava tutto improvvisamente effimero e insignificante. Avevo perduto tutto ed avevo paura di deprimermi, non potevo perdere anche la luce dell’intelletto oltre quella degli occhi! Ma poi mi sono detto: “Sono ancora vivo. La battaglia non è finita!”»

Ha perso qualcuno quel giorno?

«Fortunatamente no. Però, qualcosa sì, l’ho perso. Qualcuno che reputavo amico e che in questo frangente è sparito. Qualche delusione, sa... Moltissimi amici sono scomparsi come per miracolo. Delusione, disillusione, tanta caro mio, però (ride, ndr). L’importante è rialzarsi dopo una caduta ed io credo di averlo fatto»

Ho letto una sua poesia che mi pare parli di una di queste delusioni. Si chiama Rose gialle ma in quel componimento, però, sembra accennare ad una donna...

«Sì, quella mattina maledetta, ero in casa con la mia compagna di allora, e quando la terra ha iniziato a tremare, le ho fatto scudo con il mio corpo, mi dormiva accanto. Una pioggia di pietre, calcinacci e mattoni. Poi, uno strano silenzio. Ci siamo messi in piedi, impauriti, tremanti. Lei è andata in panico, non aveva mai assistito ad un terremoto, voleva fuggire, svestita, scalza com’era, da quella trappola per topi, ma l’ho trattenuta. Sapevo bene che avrebbero potuto esserci fenomeni successivi di franamento. Lei era scettica ma poi ha visto un masso cadere dall’appartamento soprastante sul pavimento del corridoio di casa, lasciando una buca impressionante sul pavimento».

È stata anche lei una delusione, Alarico? E perché poi Rose Gialle?

«Sì, anche lei. Nel linguaggio dei fiori le rose gialle simboleggiano il tradimento, la mancanza di riconoscenza. Nello specifico ho accompagnato un vero e proprio mazzo di rose gialle con i miei versi mentre eravamo a cena, una cena d’addio».

Intervistare un poeta è sempre molto difficile. Le sue risposte non sono mai dirette come quelle delle persone comuni. Sono sempre giravolte simboliche, allusioni. Si fa un po' di fatica... A lei sono simpatici i poeti?

«Il poeta racconta se stesso, le proprie emozioni, le sensazioni e gli stati d’animo usando i versi che però vanno interpretati, essendo di per sé limitati nella loro brevità. La poesia è super partes, non conosce schieramenti politici, né filosofici, tranne quelli che intende trasmettere ai lettori. È doloroso ammettere che tanti poeti proliferano nella realtà contemporanea, offuscando l’identità di chi scrive con l’animo e non con il raziocinio. Bisognerebbe dissuadere dallo scrivere chi non ha talento, ma la logica delle case editrici è orientata al guadagno ad ogni costo».

Questa risposta è un tantino snob. Secondo me, lei ha una concezione un po’ elitaria della poesia, quasi da incoronazione poetica al Campidoglio, come si usava una volta.

«Ma guardi che io ho già fatto il mio bagno d’umiltà, confrontandomi col maestro Elio Pecora. Mi sono messo nella condizione di ricevere una critica affabilmente negativa, eppure non è stato così».

E del rap, questa moderna forma di poesia, che pensa?

«Il rap è un genere musicale con ritmo fortemente sincopato e uniforme sul quale la voce scandisce una specie di filastrocca cantilenante. Si parla di filastrocca e non di poesia… Ma forse sono la stessa cosa?»

Rimango della stessa idea, lei è proprio uno snob. Vediamo fino a che punto: del Nobel a Bob Dylan che pensa?

«Bob Dylan ha fatto di tutto nella difficile arena della letteratura che, come spero saprà, comprende il teatro, lo spettacolo, ecc. Un Nobel ci voleva».

Questa risposta non me la aspettavo. (Ride) Si è sentito accusato di snobismo e mi ha risposto per le rime. A proposito, è vero che ha insegnato Filosofia e Letteratura Italiana in Unione Sovietica?

«All’Università Statale di Mosca».

Che fortuna! E com’è stato? 

«Beh ho trovato allievi motivati, che però usavano testi “mutilati” dalla Censura, organo estremamente attento a tutto ciò che accadeva nell’Urss. Ho fatto questa scoperta, leggendo il canto V dell’Inferno della Divina Commedia, orribilmente tagliato e ridotto per numero di versi. Continuando nella lettura ho provato un senso di sconforto: mi trovavo a combattere contro una cieca macchina di repressione».

E perché mai la censura si scandalizzava per il Canto V? Pensavo fossero...

«Aperti? Strano vero? Be’ si parla di tradimento, di amore, di passione, di sesso. In un paese che predicava l’ateismo, non era chiaro perché si badasse a celare il peccato… Forse si associava con la dissidenza. Le idee e i moti dell’animo erano banditi, come spesso l’accesso alla cultura».

E come insegnante di filosofia, immagino che di Agostino, Tommaso, Plotino, Anselmo... neanche a parlarne!

«No, infatti!  Ne parlavo solo con gli studenti più fidati che mi facevano visita a casa.

E lei non ha mai assistito a qualche repressione da parte del regime?

«In Unione Sovietica erano molto “invadenti” e proibivano i contatti diretti con gli stranieri in generale, con gli statunitensi in particolare»

Perché gli americani potevano visitare l’Unione Sovietica?

«Sì, ma solo con un permesso speciale».

Una cosa è certa, la malattia non le ha impedito di avere una vita straordinaria. Questo è sicuro. Senta, Voli di falene, la sua ultima raccolta…

«Eh, no. Confesso che ho vissuto, caro Roberto. Voli di falene è un’autobiografia in versi. Le falene rappresentano i sogni, i desideri, le paure che hanno costellato e costellano la mia esistenza e che spariscono al sorgere del sole o si bruciano alla fiamma di una candela. “Apollo Edizioni” ha voluto pubblicarmi dopo aver operato un’attenta operazione di editing sul manoscritto. Il 10 dicembre, a Cuneo, presso il Salone d’Onore del Comune, si è tenuta la presentazione della silloge, dedicata a mia moglie. Nel risvolto di copertina, ho fatto scrivere: “A Teresa, ragione del mio divenire”».





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