Incubo chiamato giustizia

Dopo 4 anni, assolto Risorgente. In carcere per non aver commesso il fatto

    di Armando Yari Siporso

Venti giorni di prigione per non aver commesso il fatto. Quattro anni di attesa per ottenere una sentenza di “non luogo a procedere per tutti i capi d’imputazione contestati”. Questo il calvario del napoletano Sergio Risorgente, stimato consulente del lavoro coinvolto, ingiustamente, dalla confessione di un proprio cliente, nell’ambito di alcune indagini su presunte attività illecite nella città di Perugia. Risorgente, solo in seguito all’arresto, apprende che quel cliente, che lo aveva tirato in ballo, era un pregiudicato di rilevante spessore criminale e addirittura mandante di un omicidio. Associazione a delinquere finalizzata alla banda armata, truffa consumata e truffa tentata sono i reati ascritti al libero professionista quando, alle 5 del mattino del 29 giugno 2010, in applicazione di un’ordinanza di custodia cautelare, viene prelevato dalla propria abitazione da tre poliziotti per essere condotto prima in Questura e poi presso il carcere di Poggioreale.

«Proprio tra le mura dell’Istituto di Pena, nelle parole dei miei compagni di cella - racconta Sergio Risorgente - ho trovato gli unici momenti di comprensione durante il periodo infernale trascorso dal momento dell’arresto a quello del ritorno alla libertà, riconquistata per l’intervento del Tribunale del Riesame, grazie al brillante operato dei miei avvocati difensori Roberto Del Giudice e Armando Bello. Ricordo la frustrazione e lo smarrimento che ho vissuto quando mi accorgevo che la mia versione dei fatti, in quei momenti di solitudine estrema e di indescrivibile angoscia, appena mi sono ritrovato in cella, non veniva presa in considerazione da nessuno».

La gioia di riabbracciare, dopo venti giorni di carcere, la figlia di 2 anni e la moglie, all’epoca dei fatti all’ottavo mese di gravidanza, non ha scritto però la parola fine alla vicenda personale di Risorgente.

«Passano, infatti, altri quattro anni, fatti di preoccupazioni, attese e viaggi snervanti - racconta il consulente del lavoro - vissuti con il pensiero costantemente rivolto alla mia famiglia e alla mia onorabilità calpestata, prima di poter ottenere un verdetto che segni la conclusione definitiva della vicenda».

Solo il 15 maggio 2014, tre anni e undici mesi dopo l’esperienza traumatica della prigione, Alberto Avenoso, G.u.p. del Tribunale di Perugia, dopo aver esaminato con dedizione e precisione gli atti, emette la sentenza di “non luogo a procedere nei confronti del Risorgente per tutti i reati a lui ascritti, per non aver commesso il fatto”, certificando in modo assoluto l’innocenza dell’indiziato.

«Potrà mai una causa per ingiusta detenzione restituire, attraverso un indennizzo economico, i momenti di tranquillità sottratti in questi anni, apparentemente interminabili, di sofferenza»? Con questo interrogativo il protagonista involontario della complessa epopea giudiziaria potrebbe aprire, forse inconsapevolmente, il secondo capitolo di questa drammatica vicenda, conclusasi fortunatamente nel migliore dei modi.

La riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione, introdotta con l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, richiede infatti una nuova istanza da proporre alla Corte d’Appello competente per territorio. Un nuovo procedimento giudiziario, dunque, nuovi viaggi e quindi, paradossalmente, nuove preoccupazioni per chi, come l’innocente Sergio Risorgente, è sprofondato, suo malgrado, in quello che lui oggi definisce “un incubo chiamato giustizia”.





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