Demetra e i Misteri Eleusini

Nuova puntata della rubrica «La persistenza del mito», dedicata alla signora delle stagioni

    di Sveva Della Volpe Mirabelli

Per 9 giorni e 9 notti Demetra, Signora delle stagioni, vagò per la terra alla ricerca della figlia scomparsa, Persefone, rosea fanciulla. Per 9 giorni "pel suo cruccio, mai di nèttare dolce o d’ambrosia/cibo toccava, mai non tuffò nei lavacri le membra", finché nel decimo dì interrogò il Sole. Da questi apprese del violento rapimento dell'adorata sua Kore a opera di Ade, padrone degli inferi. Disperata, abbandonò l'Olimpo e ogni suo dovere di dea della fertilità. Prese a vagabondare tra i mortali, sotto umane e trascurate sembianze. Giunse così nella città di Celeo, sovrano di Eleusi. 

Mentre, presso la fonte Partenia, cercava tregua dalla mordace afflizione, la videro le quattro figlie del re, lì al pozzo per riempir le brocche d'acqua. Una vecchia appariva la dea a quelle tenere donne. A loro raccontò di provenire da Creta e di essere fuggita via da alcuni pirati che a forza l'avevano tratta dalla sua terra. Le giovinette prontamente si adoperarono affinché la Diva dall'azzurro peplo e il capo coperto potesse trovar riparo nella dimora paterna. Il re Celeo e Metanira, sua sposa, volentieri accolsero Demetra affidandole l'incarico di allevare l'ultimo nato della casa, l'amore di tutti, Demofonte. Ma grande sgomento e vergogna colsero i regali ospiti quando "la Diva il suo piede/sopra la soglia mise: la testa toccò l’architrave,/la porta piena fu tutta quanta d’un raggio divino". Onori e reverenze le si offrirono, tuttavia la veneranda madre, col cuore in angoscia, rimaneva inconsolabile.

"Metaníra s’alzò dal suo trono, alla Diva

invito fece ch’ella sedesse; e non volle Demètra

che le stagioni arreca, che i fulgidi beni comparte,

sedere sopra il trono fulgente; e restava in silenzio,

gli occhi figgendo al suolo; finché la scaltrissima Giambe

le porse un saldo seggio coperto d’un candido vello.

Quivi seduta, il velo distese dinanzi al suo volto,

e sopra il seggio, a lungo, rimase nel cruccio, e taceva.

Né di gradire alcuno mostrò con parola o con atto:

senza sorridere, senza bevanda gustare né cibo,

sedeva; e la struggeva desio della vaga sua figlia:

sinché la scaltra Giambe, coi tanti suoi lazzi e le beffe,

non ebbe astretta al riso la Dea venerabile e pura,

ed al sorriso, non ebbe tornato il suo cuore, al sereno:

e sempre Giambe, poi, per l’umore faceto, le piacque".

Sono gli scherzi di Giambe qui a rappresentare l'evento. I suoi motteggi schiariscono il volto di Demetra che col suo riso può disegnare una nuova partizione del sensibile e del sacro. È questo l'episodio decisivo, quello che precede l'incominciamento dei Misteri di Eleusi. I gefirismi, pronunciati dalla scaltra Giambe, provocano una catarsi che segna un nuovo ordine del discorso, preludono a quel più ampio e ineffabile discorso dei riti eleusini. L'oscenità di argute celie accompagna così il primo tra gli atti cerimoniali legati al culto della dea chioma bella: bere il ciceone. 

La Signora delle messi, che fino a quel momento si era consumata nel digiuno, chiese allora che le fosse preparata una bevanda:

"E Metaníra, una coppa di vino più dolce del miele

rempiuta, a lei la porse. La Diva, però, la respinse:

bere purpureo vino, diceva, non l’era concesso;

ma disse che farina con acqua e fragrante puleggio

mescesse, e a lei l’offrisse da bere. La sacra bevanda

quella apprestò, l’offrì, così come volle la Diva.

Deo veneranda l’accolse, fu questo il principio del rito".

In questo Inno a Demetra, considerato una composizione minore di Omero, si celebra l'inizio del segreto vincolo tra sacro e profano. Ciò che è osceno, fuori dalla scena, "visibilmente invisibile di sé", come spiegava Carmelo Bene, è anche ciò che è numinoso e non può esser mostrato altrimenti.





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