Angelo Licheri, Mazinga Z

Il sardo che provò a salvare Alfredino: quei 60 metri a testa in giù nel pozzo a Vermicino

    di Roberto Rosano

Da piccolo, avevo l'insana abitudine di giocare intorno al pozzo di un terreno di famiglia, sul monte Massico, saltellando temerariamente sul bordo e lanciando sassi nella voragine. Chissà perché i bambini hanno questa strana tentazione. Sarà che di quei bei pozzi con carrucola sono piene mille favole e leggende di santi. Sta di fatto che ho ancora nelle orecchie le urla di mia madre e quella giaculatoria di mille pericoli, tra i quali non mancava mai di citare un certo Alfredino. È questo ricordo e la curiosità di sapere chi fosse quel proverbiale Alfredino a spingermi a rintracciare Angelo Licheri, un piccolo sardo, che all'epoca dei fatti aveva ventisette anni, le spalle strette d'un bimbo e tanto coraggio. È ancora così dopo trentasette anni: la stessa struttura sottile e minuta, da passero inglese, la stessa vivacità, benché non abbia più una gamba e si muova con un carrozzino elettrico, dal quale si scuote, con incontenibile energia, come Pinocchio dopo essersi bruciato le gambette al focolare. È a lui, non a caso a lui, che ho chiesto cosa accadde nel pomeriggio di quel lontano 10 giugno 1981...

 

Signor Licheri, Lei di chi è figlio?

Di mio padre e mia madre, almeno credo.

Risposta scarna, ma esauriente.

Sto scherzando, sto scherzando! La data di nascita non te la dico, però.

Oh, ma io non gliela avrei mai chiesta.

Senti, perché non facciamo una bella cosa: ci diamo del tu? Sei venuto a scovarmi dopo tanti anni, mi devi questo piacere.

Ma io ne sono onorato, Angelo.

Sono nato in un paesino vicino Nuoro, dove si vive di pastorizia e lavoro manuale.

Mi fai fare le domande, almeno?

Suvvia, me lo avresti chiesto. Vuoi dire che no?

Potrebbe essere (ridiamo). Nel giugno del 1981 eri a Roma. Come mai?

Sì, sì. Vivevo in via Donna Olimpia, per l'esattezza, e lavoravo in una tipografia di fronte casa. Facevo l'autista e il facchino. La mattina facevo una colazione veloce e via. Ho tre figli, tre bei figli. Mia moglie, finché vivevamo ancora sotto lo stesso tetto, lavorava in casa. Badava ai tre bambini, non aveva mica tempo di lavorare anche lei...

È il 10 giugno del 1981, quando la tua storia e quella dei tuoi cari si intreccia con quella di un'altra famiglia, che al limitare di quella soleggiata primavera, stava trascorrendo un periodo di riposo nella seconda casa, a Vermicino, nella campagna romana: la famiglia Rampi. C'è papà Fernando, la moglie Francesca, nonna Veja, il piccolo Riccardo, due anni, e poi c'è Alfredo, di sei anni...

Quello che ti posso dire in proposito, lo so dai giornali, perciò non prendere tutto per vero. Avevano appena fatto pranzo, quando a Fernando venne in mente di fare una passeggiata con due amici e portò con se anche Alfredino.

Una passeggiata tra uomini, insomma...

Sì, una passeggiata come tante, che purtroppo non rimase una delle tante perché il bambino, ad un certo punto, si stancò di ascoltare i discorsi dei grandi e disse: papà, io me ne torno a casa, ma prima passo a salutare la nonna. Vai, vai disse il papà, io tra poco arrivo. Il padre, dopo un po', rientra in casa e chiede di Alfredino, ma Alfredino non c'è. C'è soltanto la mamma con Riccardo. Allora il papà va dalla nonna, magari era rimasto lì, pensa: niente. Di là non era neanche passato...

Sono all'incirca le 20:00 quando in casa Rampi squilla l'allarme per la scomparsa di Alfredino. I genitori cominciano a cercarlo nei dintorni, senza tregua. Non trovando la minima traccia, alle 21:30 allertano le forze dell'ordine. Dieci minuti dopo, sul posto arrivano la Polizia, i Vigili Urbani, i Vigili del fuoco, le unità cinofile. Esplorano in lungo e in largo il tratto che il bambino avrebbe dovuto percorrere per rientrare in casa, ma di Alfredino non c'è traccia. Mentre i cani annusano ogni centimetro di terra in una corsa affannosa, nonna Veja ha un'intuizione, che come un bagliore d'incubo, arriva dove neppure il naso dei cani sarebbe arrivato: il pozzo!

Il pozzo. Senti, bello, quando ho sentito parlare di quel pozzo, chissà che mi credevo. Dicevano: trattasi di pozzo artesiano. E che vor'di' artesiano? Pensavo fosse abbastanza largo, artesiano appunto, fatto con arte, decorato, magari con dei mattoni. Macché: era un buco di ottanta metri, che iniziava con quaranta centimetri di diametro e poi, mano mano, si stringeva, fino ad arrivare a venti centimetri.

Ma quando le forze dell'ordine arrivano sul posto, il pozzo è coperto da una lamiera, tenuta ferma da sassi... Perciò, l'ipotesi della caduta di Alfredino lì dentro sembrava confutata...

Eh lì, se non fosse stato per Giorgio Serranti, un valoroso membro delle forze speciali intervenute, non so come sarebbe andata, eh. Ebbe la testardaggine di togliere la lamiera e tendere l'orecchio, contro il parere di tutti. Il bambino era lì. Certe volte, avere la testa dura...

Amedeo Pisegna, un insegnante abruzzese di 44 anni, proprietario del terreno e del pozzo, confessò di averlo coperto poco prima, ignaro del fatto che un bambino vi fosse caduto. Ma il mistero fu risolto solo in seguito. Nell'imminenza dei fatti, la prima urgenza fu quella di recuperare il bambino, con ogni mezzo...

Si trattava di sapere almeno a che profondità si trovasse. Presero una lampada e la calarono con una corda nella voragine per fare una prima stima. Conclusero che Alfredino doveva trovarsi a 36 metri di profondità perché la caduta doveva essere stata, come dire... Aiutami... Che io con le parole...

Arrestata...

Ecco, arrestata da una rientranza, come una curva, non so se mi spiego. Il bambino era rimasto incastrato lì. Allora, ebbero un'idea che sembrava brillante, ma che invece complicò la situazione ancora di più. Legarono una tavoletta ad una corda e la calarono giù, pensando che il bambino poi si sarebbe aggrappato per essere tirato su. Sembrava una bella idea...

Se non fosse...

Se non fosse che, come ti ho detto, là, il diametro del buco ogni tot. si stringeva e così la tavoletta a 24 metri, circa, ti dico circa perché non posso spaccare il centimetro, era rimasta incastrata. Hai capito? Due speleologi che io conosco molto bene, Tullio e Maurizio, due belle persone, veramente, hanno cercato di calarsi per recuperare la tavoletta, ma ad un certo punto si sono dovuti fermare perché non riuscivano a proseguire. Era troppo stretto per loro, era stretto per qualsiasi persona comune.

Insomma, il buco è tappato. Gli speleologi sono convinti che il successo dell'operazione di dipenderà dalla rimozione della tavoletta, ma il Comandante dei Vigili del fuoco di Roma, Elveno Pastorelli, è ormai deciso a liquidare quei giovani speleologi dopo il primo fallimento.

Andate, andate, capelloni, disse. Voi ci fate perdere solo tempo. Tu non sai le litigate che mi sono fatto con Pastorelli per questa ragione. Col dito puntato, proprio. Doveva lasciar fare quei ragazzi, doveva fidarsi. Invece, sai lui era l'ingegnere, lo specialista, che si poteva fidare di due ragazzotti! Doveva fare di testa sua. Ma se io do una zappa ad un ingegnere quello si rompe una gamba. Una cosa è studiare sui libri, un'altra cosa è...

Elveno Pastorelli prende una decisione drastica...

Diciamo pure imbecille, va.

Scavare un secondo pozzo, parallelo al primo, con una trivella, per poi ricavare un corridoio di collegamento. Laura Bortolani, geologa, ipotizzando i substrati di terreno molto duri che si sarebbero incontrati in profondità, fece notare a Pastorelli che sarebbe occorso un lungo tempo per la perforazione, e pertanto propose di proseguire anche con gli altri tentativi nel pozzo in cui si trovava Alfredino.

Niente, non volle sentire nessuno. Si incaponì che quella doveva essere la strada da seguire... Poi dicono che noi sardi... Ma dico io: poteva almeno dare a quei ragazzi la possibilità di lavorare al pozzo principale, mentre loro scavavano il secondo. Niente.

Alle 8:30 di giovedì mattina, la trivella arrivata a Vermicino e comincia a scavare il secondo pozzo. Intanto, in via Teulada, dove hanno sede i telegiornali, arrivano le prime immagini girate nella notte con un sonoro realizzato con un microfono calato nel pozzo... Emilio Fede, allora direttore del Tg1, decide di vitalizzare l'edizione con quella notizia di cronaca. Sono le 13:00, quando, per la prima volta, gli italiani sentono la voce intubata di un bambino, che vuole disperatamente la mamma.

Mamma, mamma, voglio la mamma! Basta! Ho paura! Sai che significa per un qualunque genitore sentire quella voce. Rimanemmo tutti incollati alla televisione, coi brividi di freddo addosso. Da quel momento, l'Italia intera era attorno a quel pozzo e sfido chiunque a dire il contrario.

Eppure, in quella primavera del 1981, il Paese è lacerato da eventi drammatici e oscuri: l'attentato al Papa il 13 maggio, la pubblicazione dei nomi dei 964 iscritti alla Loggia P2 il 21 maggio, le dimissioni di Forlani cinque giorni dopo. Il 10 giugno, lo stesso giorno della caduta di Alfredino, Pertini aveva affidato a Spadolini l'incarico di formare un nuovo governo. Tutto questo passa improvvisamente in secondo piano: giovedì 11 giugno tutti i quotidiani piazzano in prima pagina Vermicino e il dramma di quel bambino nel pozzo da 19 ore...

Non ce ne poteva fregare di meno della politica. Capito? Io ho un ricordo lucido, chiaro. La mattina, vado in tipografia, alle 8:00, apro le serrande, cinque, sei mi pare fossero... Poso le chiavi delle serrande e vado a prendere il furgone. Sento le due segretarie che parlano: ma che hai sentito di quel bambino, mamma mia. Ma che davero. Ma che davero. Prendo il giornale e leggo la notizia. Così l'ho saputo io! Diceva: un bambino è caduto in un pozzo artesiano, stanno facendo di tutto per recuperarlo...

Intanto, come si è detto, il conduttore del Tg1, Piero Badaloni, dà la notizia di Vermicino e la redazione viene subito subissata da migliaia di telefonate di telespettatori che reclamano più spazio sull'argomento. Emilio Fede, dietro le telecamere, fa cenno a Badaloni di proseguire il collegamento e, così, un'ordinaria edizione del Tg1 si trasforma in un'edizione straordinaria dedicata solo alle sorti del piccolo Alfredino. Da quel momento, i palinsesti vengono stravolti ed ha luogo la più lunga diretta della televisione italiana, diciotto ore, interrotta sola per trasmettere una tribuna politica. I centralini della Rai bollono per le telefonate di protesta degli italiani...

Non ce ne importava niente, ti ripeto. Volevamo sapere di Vermicino. Avevamo dimenticato tutto, anche gli affari nostri. Mi credi?

Intanto, la trivella scavava...

Scavava, ma, come avevano previsto, sotto lo strato superficiale trovarono la famosa roccia dura, ma dura, dura. Era lava, peperino, quella roba lì... Perciò, tutto procedeva a rilento. Di tanto in tanto, fermavano la trivella per sentire il bambino, per dirgli qualche parola buona, perché devi immaginare che Alfredino era lì, da solo, al buio e si spaventava a non sentire nessuno per tanto tempo. Il bambino era lucido, lucidissimo. Per fortuna c'era Nando Broglio, un pompiere, che gli parlava, gli dava conforto, gli cantava le canzonette...

Gli cantava la canzone di Mazinga Z, il cartone animato preferito di Alfredino. In quelle ore, fu addirittura calata una coca cola...

Questa della coca cola per me rimane una stupidaggine e ti spiegherò il perché. Te lo dico dopo. Vai pure avanti, che te lo dico dopo.

Alle ore 21:30, la trivella viene fermata. Per non perdere tempo, si decide di calare nel pozzo principale Isidoro Mirabella, siciliano di 52 anni, subito ribattezzato uomo ragno, ma l'esperimento non dà l'esito sperato. Mirabella, dopo pochi metri, non riesce a proseguire, ma ha parlato con Alfredino, che gli ha detto di fare presto, di far venire presto la mamma. Intanto, il bambino altera momenti di lucidità a flebili lamenti o preoccupanti silenzi. È in quel pozzo da più di 24 ore. Ma alle 9:00 di venerdì 12 giugno, finalmente si sente un applauso. Cos'era successo, Angelo?

Era successo che lo strato di roccia dura era stato penetrato, perciò si poteva procedere più velocemente. La mamma di Alfredino scoppiò in un pianto di gioia... Lì ci sembrava che la cosa si sarebbe risolta nel giro di qualche ora, perché ormai sulla terra la trivella poteva lavorare bene.

Un ingegnere davanti alle telecamere del tg 2 grida in romanesco: gliela avemo fatta! Alle10:30 si comincia a scavare il tunnel di collegamento tra i due pozzi. Alfredino è caduto 40 ore prima ed ormai non risponde più. A Roma, all'ospedale S. Giovanni, tutto è già pronto per dargli le prime cure. Passano altre otto ore prima che i vigili del fuoco abbattano l'ultimo diaframma di terra che separa i due pozzi...

E fatto questo, sembrava davvero finita. Invece, fanno 'sto tunnel di collegamento e, quando sbucano dall'altra parte...

Alfredino non c'era.

Ma ti rendi conto? Era scivolato molto più giù, oltre i sessanta metri, a sessantacinque, sessantasei metri. A casa mi prese un colpo, proprio una rabbia, una cosa che non puoi immaginare. Proprio, proprio, come ti posso dire: una furia!

Mentre vedevi fallire tutti i tentativi fino ad allora messi in atto per salvare Alfredino, in casa Licheri che succedeva?

Avevo il nervoso addosso, una cosa inspiegabile. Dico: ma come? Ingegneri, pompieri, speleologi, è mai possibile che non riescano a tirare fuori quel bambino. Esco da lavoro e torno a casa. Quel giorno, mia moglie, conoscendomi e sapendo che avevo già qualche formicolio in testa, mi aveva comprato una maglietta, per distrarmi. Dice: guarda un po' che ti ho comprato? Poi dici che non faccio mai niente per te. Dico: ma sei bravissima, stavolta hai indovinato anche la misura, brava. Vado in camera, mi spoglio e mi metto davanti allo specchio dell'armadio grande. Facevo le prove, mi misuravo le spalle, le braccia, la vita, tutto... Mia moglie entra in camera e dice: Angelo, ma che fai? Dico: e che faccio, mi sto misurando la maglietta. E che ti metti nudo per misurarti una maglietta? Mi rivesto, metto la stessa maglietta che mi ha regalato mia moglie, per farla contenta. Dico: io vado a comprare le sigarette. Il bambino fa: vado io, papà. Dico no, no: magari mi fermo a chiacchierare con qualche amico, strada facendo.

È vero che tua moglie cambiava canale, per evitare che seguissi le vicende di Vermicino?

Certo, e quella mi conosceva. Conosceva il suo pollo, capito? Il tabaccaio era sotto casa, ma io ho messo in moto la macchina e mi sono avviato verso Vermicino, che manco sapevo dov'era. Solo che, mi credi? Non c'era da sbagliarsi. Arrivato sulla Tuscolana, vedo una scia di macchine, come un serpente, bastava seguire loro.

Quanto distava casa tua da Vermicino?

Venti chilometri, al massimo, non ricordo di preciso, una ventina di minuti, ecco. Feci un po' lo scorretto; non era mia abitudine, ma, quel giorno, appena avevo mezzo metro libero, mi infilavo, saltavo qualche marciapiede, quando era possibile. A tre km da Vermicino bloccavano le macchine e le deviavano tutte in un punto. Dico: guardi che io sto andando non per curiosità ma per rendermi utile. Dice: eh sa quanti dicono così. Vada avanti, vada avanti. Ad un certo punto, vedo una macchina che sta per andare via. Prendo il suo posto. Parcheggio e scendo...

Insomma, ti avvii a piedi...

Sì, solo che, una volta lasciata la strada asfaltata, e fatto un bel pezzo a a piedi, c'era un'altra pattuglia dei carabinieri che bloccava il passaggio anche a quelli senza macchina. Dico: ma guardi che io sono venuto per rendermi utile. Vede che non sono un colosso? Ce la posso fare, in quel buco ci entro perfettamente. No, no, no circolare, circolare. A questo punto, vado per una vigna. Da lì, prendo un'altra stradina laterale, sollevo il filo spinato e, come un ladro, cerco di infilarmi per arrivare dritto al pozzo. Solo che davanti mi ritrovo un cordone dei militari che cercavano di non fare entrare ulteriori persone.

In che senso: ulteriori persone?

Hai presente una festa di paese? Ecco, era una festa di paese o un circo, decidi tu. Vendevano panini e bibite, perché erano arrivati più di diecimila curiosi, una vergogna totale. Questa è la curiosità italiana.

Ma non potevano cacciare tutti?

No, no, era impossibile. Le persone andavano, venivano, si intrufolavano, un caos generale. Ma io sinceramente neanche li sentivo, tant'è vero che dopo qualche minuto è arrivato il presidente Pertini e tutti ad applaudire. Io invece neanche ho visto in che punto stava, non per mancanza di rispetto, per carità, anzi per me è stato il migliore Presidente che abbiamo mai avuto. Solo che, in quel momento, che me fregava di Pertini...

E arrivato al cordone militare?

Arrivato lì, dico: e mo che me 'nvento? Avevo sentito il nome di Elveno Pastorelli, al telegiornale. Busso alle spalle di un militare e gli dico: scusi, può andare da Elveno a dirgli: è arrivato Angelo. Scusi, Angelo chi? Lei gli dica solo Angelo, lui sa. Non era vero. Va bene!, mi fa: stia fermo qui. Approfittando della sua assenza, mi intrufolo e vado dritto da Pastorelli. Gli chiedo di lasciarmi entrare nel pozzo. Le macchine fotografiche bum, bam, scattavano foto a raffica, io mi nascondevo, pensavo adesso se mi vede mia moglie mi ammazza. Da quel momento inizia un tira e molla con Pastorelli. Mi sono messo a piangere davanti a loro, pregandoli di lasciarmi provare, ma non mi hanno fatto scendere. Persino, la mamma di Alfredino si è avvicinata e mi ha detto: guardi non me la sento di prendermi questa responsabilità, magari rimane incastrato anche lei.

Be', era comprensibile...

Pastorelli mi fa: si metta in parcheggio, stia tranquillo, qualora ne avessimo bisogno, la chiamiamo. Intanto, mi hanno misurato le spalle: 32 cm.

Prima di te, però, hanno lasciato provare un certo Claudio Aprile...

E non ho capito perché. Le spalle di Aprile misuravano almeno dieci centimetri più delle mie. Se si tratta di centimetri, com'è possibile...

E come si spiega?

Eh, perché lui diceva: ahò, io so un pozzarolo, io sti lavoretti m'i magno. Prima di scendere, te lo avrei fatto vedere. Una commedia. Ha salutato la nipotina, la moglie, salutava mezzo mondo. La gente applaudiva: dico ma cosa applaudite, ma qui sembra un circo pe' davero!

Ma anche Aprile, purtroppo, fallisce. La sua corporatura non gli permette di proseguire...

Quando lo hanno tirato fuori, era bianco come una tela. Quando l'ho visto uscire, mi sono spaventato, ma ho sentito come una molla, come uno che mi dava un calcio nel sedere per dirmi vai! (Fischia). Avevo un pensiero fisso: il buio, i bambini hanno paura del buio. Mi sono tolto la maglietta, le scarpe, i pantaloni. Pastorelli mi dice: ma che fa? Dico: guardi che io non faccio lo spogliarello per nessuno. Mi sto spogliando per guadagnare qualche centimetro. Dice: ma lei soffre... Niente, non soffro di niente. Ma voglio dire: lei ha avuto in passato... No nulla. Si ma... Ho urlato: voglio scendere, basta! Sono venuti Tullio e Maurizio, i due speleologi, e mi hanno dato una carica che non puoi immaginare. Poi, siccome soffro di reumatismi, in quel momento mi si era bloccata la mano sinistra e cercavo di massaggiarla. Un militare, occhio di volpe, se n'è accorto e mi fa: ma sta male? No, no sto benissimo. Mi sto soltanto sgranchendo le mani.

E a quel punto ti hanno imbracato...

Mi hanno legato per bene, mi hanno imbracato come si deve e via: ho iniziato a scendere...

A testa in giù...

A testa in giù, esatto, con una lampadina con la luce messa al minimo per evitare che il bambino fosse infastidito dalla luce dopo tante ore di buio. Attorno a me vedevo solo terra, più scendevo e più era notte... Sentivo questo odore di terra...

Come hai fatto a controllare la paura? Era un'impresa inumana...

Ma la mia paura più grande, a dirtela tutta, era che ci fosse qualche serpente, perché io non ho paura di niente, ma dei serpenti... (Fa un incontrovertibile gesto con le mani per dire: me la faccio addosso).

E...

Dicevo: giù, giù, piano, piano e quelli non capivano, invece di mandarmi giù, mi tiravano su e viceversa. Perché da fuori non si sentiva bene, capito? Poi uno speleologo, non ricordo se Tullio o Maurizio, ha avuto una bellissima idea. Mi ha detto: Angelo invece di dire "su-giù" che si somigliano, di' "tira-molla", così per noi è più scandito. Va bene, ricominciamo. Molla, molla, piano, molla, piano... Scendo ancora diversi metri. Ad un certo punto non vedo più la terra sotto di me, ma roccia. Era strettissimo. Sai, finché c'era terra, scendendo, levigavo la parete e passavo, non so se rendo l'idea...

Sì, col corpo ti facevi spazio, passando, spostavi la terra...

Eh, ma quando c'è la roccia, che fai! Devi solo fermarti. Allora lì ho detto: quel che accade, accade. Dico: tira, tira, tira, basta: molla, molla, veloce, molla, molla, molla, a tutta velocità, entro nel buco e la roccia mi taglia di netto le anche e le spalle. Io non so come non sono svenuto dal dolore in quel momento, guarda. Sai quando metti qualcosa in una formina e quello che è di troppo rimane fuori?

(Faccio cenno di sì con la testa)

E continuo a gridare: molla, molla, molla... Buio profondo, non sapevo dove stessi finendo. Dopo qualche metro però, qualcosa riesco ad intravederla. Tocco, era il bambino. Ho gridato: stop! (La voce di Angelo si arrochisce d'improvviso). Mi sono commosso a toccare quella creatura... È stata una cosa... Non sentivo neanche il dolore, niente... Con due dita della mano sinistra gli ho pulito gli occhietti, per farglieli un po' aprire, ma niente, è rimasto con gli occhietti chiusi. Col pollice e l'indice della destra gli ho pulito la bocca dal fango. Ho gridato: tira cinque! Che vuol dire cinque? Centimetri? Centimetri! Sì. Le mie braccia erano attaccate alla testa, bloccate dalle pareti. Potevo usare solo le mani. Cercavo di lavorare solo con quelle. Da fuori mi chiamavano: Angelo, l'hai preso? Io non rispondevo, perciò loro pensavano avessi qualche malore, invece io stavo parlando col bambino promettendogli tante cose. Cercavo di liberargli le braccia e le mani. Aveva un braccio dietro la schiena e l'altro sotto il sederino, perciò ti dicevo prima, ma quale coca cola! Il bambino era incastrato in quel modo, come faceva a bere la coca cola. Mentre cercavo di liberarlo, gli dicevo: Alfredino, ti porto con me appena usciamo da qui...

L'inviato del Tg 1 disse in diretta: gli sta parlando, gli sta parlando molto dolcemente...

Gli dicevo: lo sai anch'io ho tre bambini... Tre bei bambini come te... Senti, ma tu ce l'hai una bicicletta? I bambini, tutti, hanno la biciclettina. La compro anche a te e la tua sarà più bella, più nuova. Io ho anche una barca di tre metri, sai,ce ne andiamo a pesca... Ma mi hanno detto di stare attento perché tu sei bravo a pescare. E poi ce ne andiamo anche in vacanza in Sardegna, eh, Alfredi', ti porto con me, con tutti i miei bambini, con mia moglie, tuo padre, tua madre, il tuo fratellino. Andiamo tutti insieme in vacanza, eh Alfredi'.

E lui rispondeva?

No, no, rantolava solamente, ma era lucido, ne sono sicuro, perché quando smettevo di parlare, rantolava più forte, come a dire continua a parlare. Questo mi ha dato un bel segnale del fatto che era lucido e che capiva perfettamente quello che gli stavo dicendo. Appena, gli ho liberato le mani, ho cercato di imbracarlo, facendo passare la cordina, partendo dalle spalle, girando sotto le ascelle e riportandola dietro, praticamente qui rimaneva tutto chiuso. (Indica con le mani il petto e le ascelle). Era bello infagottato. Ho intimato di tirarmi su e loro hanno tirato, però hanno dato uno strattone così, mentre avevo la cinghia ancora in mano, si è sganciato il moschettone. Ho provato a prenderlo da sotto le ascelle, ma anche lì, tirando su, davano degli strattoni impossibili. Allora, disperato, ho provato a prenderlo dai polsi, ma anche lì, hanno dato uno strattone e... (Angelo si ferma alcuni istanti, deglutisce a fatica).

Angelo, forse è meglio...

Gli ho spezzato il polsino sinistro. Ho sentito track. Lui neanche si è lamentato. A quel punto lì mi sono sentito in colpa. Dico: ma guarda un po', quanto ha già sofferto con questa cosa e sono arrivato io per rompergli anche il polsino, povera creatura.

(Angelo fa un'altra pausa, più lunga della prima. Riprende dopo poco).

L'ultimo disperato tentativo che ho fatto... L'ho preso per il vestitino, ma anche in quel modo non si riusciva, cadeva, perché era troppo scivoloso. Con le mani non riuscivo a tenerlo fermo. Era come cercare di tenere una biscia fra le mani. E allora... A quel punto... Ce l'ho ancora davanti agli occhi... Gli ho mandato così, un bacetto... L'ho salutato con la mano... E...

Angelo, va bene così...

Sono venuto su... Gli ho dato un bacetto e sono venuto su...

 

Caro Angelo, è finita così la nostra chiacchierata. Non ho saputo, né voluto chiederti altro. Scusa ancora se la circostanza della mia intervista ti ha costretto a ricordare quei momenti. So che per il tuo cuore non è ancora passato un solo giorno da quella tragedia. So anche che respingi, con decisione, l'appellativo d'eroe, perché senti di aver fallito ed un eroe, a tuo dire, non dovrebbe fallire mai. Può darsi, ma non credo che tu abbia fallito del tutto. Rimanere a testa in giù per più di quaranta minuti, quando è acclarato che, dopo venti, scoppino i capillari e si perdano i sensi, non è stato forse un capolavoro d'ardimento? Sussurrare all'orecchio d'un bambino, immerso nel buio da più di due giorni, parole tanto dolci, fargli vedere, per un momento, il luccicore del sole sul mare di Sardegna, la tua barca da pesca ed una bicicletta nuova, non è stato forse un piccolo miracolo? Credo che tu sia stato il suo Mazinga Z, quello vero. Grazie infinite, signor Licheri.





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