Garrone sdogana Basile
Con Il racconto dei racconti il regista di Gomorra alza il velo sull'opera del poeta giuglianese
di Aldo de Francesco
Chapeau a Matteo Garrone, regista di Gomorra che, con il suo “Racconto dei racconti”, tratto da “Lo Cunto” del Basile, sta riuscendo a sdoganare con l’arte del cinema il grande e fantasioso poeta dialettale napoletano. D’ora in avanti ci sarà visibilità anche dei suoi luoghi, rimasti in ombra in quel gioco di alterne fortune e di percorso carsico, di inabissamento e di emersione, toccato, nel corso di quattro secoli, al grande “maestro delle fiabe”. Se Giambattista Basile nacque a Giugliano, originaria, genetica fonte ispiratrice di innumerevoli fiabe, fu però nel Castello di Montemarano, in Alta Irpinia, che diede “vita” definitiva, con nuovi apporti, alla sua straordinaria creatura, “Lo Cunto de li cunti”, l’opera più sorprendente: l’emblema del barocco. Era il 1613 quando, reduce da una vita avventurosa e nomade, ricca delle esperienze più disparate, tornò a Napoli. Già soldato mercenario nel senso più romantico del termine e artista di sensibilità unica, tutto lasciava supporre, tranne una nuova partenza, meno che meno, per una meta agli antipodi della sua esistenza libertina e mondana: Montemarano su un colle del regno (poi “Alto-monte” di una fiaba?). Ma il poeta, balzano e imprevedibile, colse, ancora una volta, tutti di sorpresa, in particolare, l’amico vicerè, corte e cortigiani. Aveva già passato la cinquantina e, dopo aver preso in sposa Flora Santoro, procace giovane di Giugliano, più giovane di lui di una ventina di anni, nel 1615, voltò le spalle alla Capitale.
Nauseato da beghe, intrighi e ipocrisie di corte, di una nobiltà parassita, servile e bigotta, si tuffò nel mondo agreste, alla ricerca di quell’anima popolare, di cui s’era invaghito e che da tempo andava esplorando, dovunque gli capitasse di farlo, deciso a completare la sua grande opera da sempre sognata: il Pentamerone o “Lo Cunto de li Cunti”. Una scelta molto meditata, resa possibile dalla munificenza dei Caracciolo, illuminati signori di Avellino, allora con il principe Marino II, all’apice delle loro fortune dinastiche e “imprenditoriali”. Archiviato il passato da protagonista alla corte dei più potenti signori del tempo - da Mantova a Venezia e nell’isola di Creta - ma anche al seguito della sorella Adriana, cantante molto amata dai Gonzaga, sapeva bene che soltanto lontano dalla ruffiana e soffocante Napoli Spagnola, stretta nella rete della Controriforma, avrebbe potuto licenziare il suo capolavoro, raccogliere in una ponderosa opera, racconti, tradizioni orali, favole e leggende: il lavoro di anni di avventurosi viaggi. Appena ne ebbe la opportunità, la prese al volo.
Il castello di Montemarano - su cui nel 1130 il geografo arabo El Edris tracciò la prima mappa del Sud e in seguito, si svolsero molte altre vicende - fu per Basile il luogo ideale per ripercorrere il proprio passato, riflettere sulla vita di una comunità rurale molto vitale, che vi si svolgeva sotto i suoi occhi tra vicoli, botteghe, cantine, per trarne ulteriori spunti ispirativi.
La riscoperta di un artista e di un mondo fantasioso, già ampiamente esaltati con adattamenti, riletture e spettacoli di successo, da lasciare il segno, ora si proietta su una ribalta mediatica e cinematografica senza pari e più accessibile.
Quarant’anni fa la mirabile“Gatta Cenerentola” di Roberto De Simone, ispirata liberamente a “Lo Cunto” del Basile, ebbe un travolgente contesto “napolicentrico”, con Napoli, madre e matrigna, figlia e figliastra, ribalta dolente di tante dominazioni, luci e ombre, mito e religiosità, gioco e tragedia; oggi, invece, il “Racconto dei racconti” assume una dimensione “policentrica”, universale, di grande e spettacolare sfida del cinema italiano a quello internazionale. Garrone ci crede molto e coerentemente con il suo stile sobrio, di poche parole e di profondo sentire, senza enfasi, dichiara: “Ho scelto di avvicinarmi al mondo di Basile, perché ho ritrovato nelle sue fiabe quella commistione fra reale e fantastico che ha sempre caratterizzato la mia ricerca artistica. Le storie de “Il racconto dei racconti ”descrivono un mondo in cui si riassumono gli opposti della vita: l’ordinario e lo straordinario, il magico e il quotidiano, il regale e lo scurrile, il terribile e il soave. Un film per tutti, che educa a non essere ipocriti”. Testimonianza autorevole e significativa, che oggi, come non mai, mi spinge a ricordarne un’altra, quella del grande Domenico Rea.
Il popolare e rimpianto Mimì, in lontani incontri nella redazione del “Mattino”, di cui era vivace frequentatore e stimatissimo collaboratore in permanente, gelosa conflittualità con Luigi Compagnone, sapendomi nativo di Montemarano, mi diceva sempre per trasversale simpatia: “Ah, il paese di nonno Giambattista?”, come era solito chiamarlo; per poi ricordare puntigliosamente con la sua fluviale e colorita dialettica: “Nonno Giambattista mi ha insegnato tutto: la vita e a scrivere. Quello che ho fatto, lo devo a lui. Io sono diventato uomo, leggendo lo Cunto. Mi ha fatto capire che con il dialetto si può scrivere e registrare fedelmente il più autentico sentimento, ogni nostro atto”. E continuava a modo suo, senza remore o autocensure: “Ciò che l’uomo fa, nel bene nel male, merita sempre di essere raccontato: anche le scorregge e una cacata”. Di qui la sua ammirazione, seria ma divertita, per il geniale Salvador Dalì, che, sul proprio diario, aveva annotato: “Stamattina defecazione eccezionale con escrementi a forma di corno di rinoceronte...”.
Una bellissima e fantastica realtà quella emergente a Cannes, che spero trovi a Montemarano, nel paese de “Lo Cunto”, e a Giugliano, patria originaria e incontestabile del Basile, un nuovo slancio attraverso una celebrazione annuale, arricchita da una serie di iniziative.