Raccontare senza parole
Al Napoli Teatro Festival va in scena Hallo: Martin Zimmermann regista e unico interprete
di Lidia Girardi
Quello che Martin Zimmermann offre nel suo spettacolo “Hallo”, nell’ambito del Napoli Teatro Festival, ha a che fare con la vita; con la contraddittoria, difficile, spassosa e imprevedibile vita.
Questo eclettico artista francese si era già fatto conoscere, nell’ambito di questo stesso Festival, nel 2010 con “Oper Opis”, eseguito insieme ad una compagnia di teatro-circo tra le più note e apprezzate del panorama mondiale: la Zimmermann & de Perrot. Per questo nuovo spettacolo, però, il virtuoso Martin ha progettato una messa in scena che lo vede regista e anche unico interprete, fondendo le sue origini circensi con una originale lettura della vita umana in chiave tragicomica.
Il sipario si apre su una scenografia scarna, quasi impenetrabile per lo spettatore, che soltanto nell’evolversi della performance troverà la sua ragion d’essere nella continua mutabilità degli elementi scenici. Inizialmente il palcoscenico è vuoto, abitato solo da questi incomprensibili oggetti, si sente soltanto la suoneria di un cellulare e milioni di voci che ripetono una tra le parole più conosciute al mondo, per l’appunto, “Hallo” (Ciao).
Si presenta a questo punto quest’uomo smilzo, quasi gracile con una faccia buffa e un’incredibile mimica facciale. Di lì a poco, ci si renderà conto che quel corpo minuto riuscirà a raccontare una storia bellissima che parla della forza e della debolezza dell’essere umano facendo del suo corpo lo strumento per farlo.
Zimmermann, con una sapiente rapidità nei movimenti, si chiude in scatole di legno e sbatte da un lato all’altro del palcoscenico, cambia abiti ed espressioni con una velocità disarmante, segue e combatte il mutare di scenografie che si compongono e si scompongono come se fossero governate da una forza maggiore e non perde mai di vista quello che si racchiude in ogni gesto che compie e cioè essere funzionale alla trama che si va via via componendo.
Così quella che era una scatola di legno diventa una casa, porto sicuro e rassicurante, poi alloggio di fortuna di uno Zimmermann-clochard in preda al freddo, alla disperazione e al patimento e ad un tratto ci si trova davanti ad una vetrina ed il corpo, la scena e gli oggetti raccontano una storia di cui l’interprete è soltanto una parte. L’uomo diventa manichino ed è la struttura di legno a muoversi, a scontrarsi con il desiderio di vanità del protagonista o semplicemente ad impedirgli di essere “normale”. Vengono svelati piccoli contenitori sul palco, fino a quel momento assolutamente invisibili, attraverso cui Zimmermann scompare per riapparire dal lato opposto del teatro. Ogni elemento sembra non avere un peso e a tratti, invece, essere ingestibile. La maestria di chi ha ideato questo spettacolo permea ogni minuto di quell’ora in cui Zimmermann combatte con se stesso e con ciò che lo circonda.
Tutto quello che mostra è prima ciò che deve essere, così come è da noi conosciuto, e subito dopo il contrario di ciò che è stato; le avversità sceniche del protagonista diventano occasioni nuove, proprio come nella vita e questo artista del movimento riesce a rappresentare un’anima fuori dal proprio corpo e fuori dalla spazio circostante.
La musica ha un ruolo fondamentale: accompagna i movimenti del protagonista, regala pathos o spensieratezza e, in alcuni passaggi, diventa essa stessa personaggio degli episodi raccontati, quasi sempre ponendosi come antagonista.
Zimmermann interpreta il disperato, il dispotico, il pazzo, il cattivo, il pacifista, il bambino. Non parla ma racconta con ogni suo gesto. Come spiegò puntualmente in un’intervista nel 2014 (anno in cui iniziò a portare in giro per il mondo “Hallo”): “Corpo e scena sono due elementi strettamente legati: l’uno non può esistere senza l’altro”.
Il tragicomico personaggio che viene fuori in “Hallo” sorride e spaventa, ride e irrita, intenerisce e affascina. Esprime in questo modo le infinite sfaccettature di ogni essere umano che nella quotidianità, spesso anche scontata, “oscilla tra una versione e l’altra di se stesso”.