Un autoritratto inedito
Leonardo Sinisgalli e il sesto numero della rivista di poesia Levania
di Enza Silvestrini
Come è cambiato il nostro modo di rappresentarci, di ritrarci o autoritrarci ai tempi del selfie? È un tempo in cui continuamente ci autorappresentiamo in valanghe di pose e foto, di like e tag, proponendo un’immagine di noi frammentata ma che scorre, tuttavia, nel gran mare dei social. È una continuità orizzontale, scardinata e dispersa. A questo tema Levania (rivista di poesia che pubblica inediti di poeti italiani e stranieri e opere di artisti) ha dedicato un intero numero: il numero 6.
L’editoriale ci avverte che, alla fine degli anni Sessanta, Andy Warhol si fa interprete del suo tempo lavorando alla sequenza delle Marilyn Monroe. La sequenza mette fine al ritratto tradizionale inteso come indagine sul soggetto poiché è immagine riproducibile, omologante, non individuata, consumabile. Così come lo sono i nostri selfie. Cosa è dunque diventato l’io in questa dispersione onnivora, in Levania ce lo raccontano poeti e artisti che ritraggono e si autoritraggono in versi e in prosa, ma soprattutto ce lo racconta Leonardo Sinisgalli, uno degli autori che più profondamente ha segnato il nostro Novecento.
Dalla copertina del numero 6, Sinisgalli, il poeta delle “due muse” che seppe unire poesia e scienza, ci guarda con occhi e occhiali sbilenchi dai tratti marcati dalla penna. Alle sue spalle, un asciugamano che pende dal gancio e lo sciacquone ci dicono che siamo indubitabilmente in un bagno. “Autoritratto inciurmato. Montemurro 26 agosto 1980” annota il poeta nella scritta in basso. Quasi alla fine della sua vita (muore pochi mesi dopo, il 31 gennaio del 1981) Sinisgalli, uno dei più grandi poeti italiani, si ritrae in bagno. Potenza dell’ironia!
Eppure, se l’autoritratto si confronta con una poesia pubblicata nella raccolta Dimenticatoio (1978), assume altri sensi: “Era destino che avessi l’altarino / a picco sul fosso / davanti alla chiesa del Soccorso. / Mangio, bevo, leggo, scrivo / in comunione con i morti. / Anche la latrina / ha una piccola finestra / che inquadra le croci sulla collina.” La “latrina” citata nella poesia è quella dell’autoritratto: il vecchio poeta, come ha sempre fatto, torna in Lucania, alla sua casa di Montemurro (dove ora sorge la Fondazione Leonardo Sinisgalli). La casa e la latrina affacciano sul fosso di Libritti (è anche il titolo della poesia), un profondo baratro che separa il paese dalla collina. Lì c’è il cimitero con il suo muro bianco e le sue croci inquadrate dalla finestra.
Lo stesso cimitero, la stessa chiesa osservati da bambino quando (scrive Sinisgalli in Furor mathematicus, un libro dirompente, pubblicato per la prima volta nel 1944) il contrasto tra la penombra della casa e la luce nitida delle vetrate della chiesa del cimitero, radica la certezza che “noi viviamo dalla parte dell’ombra” con un’ansia che grava sul cuore: capire se è il caso o un fine a tenere il nostro destino.
Ed ancora, nel numero 6 di Levania, viene riprodotto un taccuino, inedito nella sua interezza, su cui il poeta, nel settembre del 1961, “scarabocchiò” disegni e scrisse i versi di Piazza del popolo, un lungo testo diviso in tre parti. Sinisgalli sa che in piazza del Popolo “sarà impiccato l’ultimo poeta”, che “un giorno, è probabile, morirà la Poesia”. Il poeta avverte la crisi, le zuffe che dilaniano i poeti, dilaniati a loro volta dalle baccanti della piazza. In un rito mistico e blasfemo si consuma la discesa agli inferi che accomuna i cadaveri di poeti, “prostitute barocche” e “santi adolescenti”. La poesia risorge ammiccante cantando la sua morte.