Quando il cinema brilla a Venezia
Note sui film: ecco cosa vale la pena vedere. Bene "Wednesday, May 9" e "Madame Courage"
di Maria Regina De Luca
Ancora una volta, la città lagunare sventaglia dinanzi ai visitatori internazionali le sue bellezze e le sue luci. Perché a Venezia la luce non tollera il singolare, tanto è varia e mutevole quella del suo cielo e dei suoi tramonti, quella che si riflette dai lampioni rosati in canali e vetrate, quella che sembra nascere dalla sua laguna nel delicato riflesso di un’architettura ideata in stato di grazia da architetti e artisti del tempo.
Oggi s’incontrano artisti diversi, alcuni che potrebbero definirsi patroni di alcuni generi, come l’ancora valido Carlos Saura per il quale, come dichiarò in una lontana intervista al San Carlo di Napoli, ‘tutte le donne sono Carmen’. Qualcuno dei divi, destinati per fascino e bravura a prendere il posto della vecchia e insostituibile guardia, sembra aver perduto per via intere parti di sé. Come Johnny Depp, interprete di favole e di sogni, di ‘Neverland’ e di ‘Chocolat’, che abdica al fascino e allo stile per la banalità del grottesco in grado di garantirgli il successo di massa di platee al di sotto dei 15 anni. Sperando in un ravvedimento, coraggio, guardiamo.
Non è facile scegliere nella massa di proposte, alcune decisamente indecenti, che un cartellone così affollato offre. Una di queste può esser considerata ‘The Endies River’ di Oliver Hermanus, mentre più che decorosi sono ‘Wednesday, May 9’ di Vahid Jalilvand e ‘Madame Courage’ di Merzak Allouache dove le madri sono due, l’una carnale in senso del tutto negativo; l’altra, apparentemente misericordiosa, che distrugge col suo potere quanti ne fanno uso scambiando per serenità l’oblio. In ‘Zonda’, folklore argentino a 360 gradi e senza tempo di Carlos Saura, si compie decisamente un salto di qualità e i suoi giochi di specchi, la cura dei movimenti, lo scorrere e l’alternarsi delle scene escono dai confini del documentario levitando sotto la mano del maestro al di là dei contenuti. In ‘Non essere cattivo’ Claudio Caligari non riesce, pur con tutte le sue buone intenzioni, a sfuggire alla trappola che egli stesso ha preparato scegliendo un tema che ci viene riproposto in diverse ore del giorno dai vari mezzi di informazione. ‘Island City’ di Ruckika Oberoi va sconsigliato agli amici, che vanno avviati invece a vedere il bellissimo ‘La vie et rien de d’autre ‘di Bernard Tavernier, il grande regista che, contestualmente, ha ricevuto il meritato Leone d’oro alla carriera.
Da vedere il documentario di Noha Baumbach e di Jake Palatrow su Brian De Palma e, con qualche riserva, il film d’animazione di Charlie Kaufman, ‘Anomalisa’ che riceverà comunque un riconoscimento. Ci si rinfranca dei passi falsi, inevitabili in una maratona come questa, con ‘Blanca’, del filippino Rohki Hasei e si può tentare, senza far confronti con gli splendidi precedenti in tema di Samurai coi quali non ha niente a che vedere, ‘The Last Samurai’ di Steven Okazaki, sul samurai cristiano giapponese in attesa di beatificazione. Da apprezzare il gusto esteticamente appagante di '11 minut (11 Minutes)’ di Jerzy Skolimowski, carente nella trama nonostante il virtuosismo che ne impronta il ritmo. Quanto agli altri film italiani non ci sembra che ci sia da meravigliarsi che il Leone non abbia ruggito per loro ma per ‘Desde allà’ di Lorenzo Vigas, sguardo d’artista sull’inquietante panorama di Caracas dove l’inferno sembra essere ancora speranzoso di diluirsi in un prossimo paradiso. Meritatissima la Coppa a Valeria Golino, in ‘Per amor vostro’, che avrebbe forse meritato un cenno particolare.
Chiudiamo qui le nostre piccole note che non hanno né il taglio né la presunzione di essere critiche, ma solo dei piccoli flash su questa Kermesse che, secondo una moda dilagante, ha il difetto di mettere troppa carne al fuoco, lo stesso che contagia il Napoli Teatro Festival dove opere egregie sono a volte mortificate dal pullulare di spettacolini insensati e velleitari che condannano lo spettatore a scelte alla cieca e a prove da sforzo fisiche e mentali. In tale miscellanea di proposte spesso non basate sulla qualità, ma su rapporti di scambio dai quali il rispetto per lo spettatore è escluso, brilla l’incongruenza di presentare ogni tanto, come gemme nascoste, opere risalenti ai tempi d’oro del cinema, distorcendo in senso non positivo l’orientamento critico del pubblico. Non è da poco decidere se ornare la rassegna di queste luci o proteggere la coetaneità delle opere per una sorta di tutela ideale. Non è facile, come non lo è separare il grano dal loglio. Il guaio è che, spesso, si estirpa il grano e si lascia fiorire il loglio.