Quando il calcio diventa leggenda

Alex Infascelli racconta in 101 minuti l'uomo e il campione Francesco Totti

    di Giordana Moltedo

C’è una generazione, nata a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, che ha assistito ad un ideale passaggio di consegne. Dal sogno infranto di Usa ’94 di Baresi, Maldini e Baggio al trionfo di Berlino di Totti, Buffon e Del Piero. C’è una generazione, nata a cavallo tra gli anni’80 e ’90, che ha avuto modo di assistere all’ultima vera fiammata del calcio italiano. Un calcio che vedeva sulla scena la Sampdoria dei gemelli del gol (Vialli e Mancini), il Parma degli argentini Verón e Crespo, l’Inter guidata dal suo “Fenomeno” Ronaldo e delle squadre che ancora si identificavano con le proprie  bandiere. La Juve era Alex Del Piero, il Milan era Paolo Maldini, l’Inter era Javier Zanetti, la Lazio era Alessandro Nesta. Ma in questa narrazione delle bandiere c’era una storia a sé, e la generazione di cui sopra ha potuto assistere ad un qualcosa d’irripetibile nel calcio italiano. La storia è quella tra Francesco Totti e la Roma. Una storia lunga venticinque anni, 786 partite giocate, 307 gol, 1 Scudetto, 2 Supercoppe italiane, 2 Coppe Italia e una Scarpa d’oro vinta come miglior marcatore.

Un nome ormai leggenda, che il regista Alex Infascelli ha raccontato nel documentario Mi chiamo Francesco Totti, approdato da poco su Sky dopo aver sbancato i botteghini dei cinema, e tratto dall’autobiografia che lo stesso Totti ha scritto con il giornalista Paolo Condò dal titolo Un Capitano. Infascelli nel documentario su Totti, si è rifatto al più classico degli archetipi della narrazione, ovvero al viaggio dell’eroe. Ma questo è un viaggio particolare, perché Totti è un eroe che non ha mai dovuto abbandonare la sua terra, la Roma, per andare a difendere il suo popolo. Le uniche lotte sono state quelle per restare nella sua Terra, tra la sua gente. Dalla decisione di Carlos Bianchi di venderlo bloccata poi da Franco Sensi, alla tentazione di accettare l’offerta del Real Madrid poi tramontata, fino alla lotta per continuare a giocare in una Roma che, ormai americanizzata, aveva deciso di attuare una “deromanizzazione” della squadra, che ha trovato poi il suo compimento con gli addii di Daniele De Rossi e Alessandro Florenzi.

In 101 minuti, Infascelli riesce a raccontare tutto Totti. Dai primi calci al pallone alle giovanili, dall’esordio allo scudetto, dalla vita pubblica alla vita privata, dal declino sfiorato con la frattura della tibia e del perone contro l’Empoli al riscatto avvenuto a Berlino. E poi ancora, gli anni d’oro con Spalletti fino all’uscita di scena, avvenuta proprio con  il ritorno di Spalletti in panchina. Se 101 minuti bastano a riassumere il Totti privato e calcistico, il tutto si carica ancora più di significato perché è lo stesso Totti a raccontare la propria storia. Totti è l’io narrante che fuori campo racconta, con ironia e schiettezza, la propria vita, facendo emergere la grande genuinità di un giocatore che è stato capace di rimanere fedele a se stesso, sempre. Il Totti che nelle giovanili incantava gli spettatori sugli spalti era lo stesso Totti che incantava la curva Sud e i tifosi di calcio, e a dircelo è lui stesso, quando elenca le sue caratteristiche come giocatore: potenza fisica, destro potente e preciso e intelligenza nel prendere la posizione in campo, facendosi trovare al momento giusto nel posto giusto.

Ma più si va avanti nella visione e più cresce il magone, perché c’è la consapevolezza di trovarsi in presenza di una storia a sé, che racchiude i generi più svariati. Il documentario è la narrazione storica di un Re, Totti, in grado di essere un tutt’uno con il suo popolo. È la narrazione che sfocia in un trattato di sociologia dove il suo calcio diventa un tutt’uno con le masse. E proprio il rapporto simbiotico con la massa, fa si che la narrazione si trasformi in un grande romanzo popolare nel quale alla fine tutti si identificano con il protagonista: dal romanista all’appassionato e non di calcio.

Un narrazione unica che trova la sua fine in una data, il 28 maggio 2017. In quella data, nella quale Roma salutò il suo Re e il calcio l’ultimo dei suoi simboli, un popolo non seppe trattenere le lacrime e lo stesso accade quando Infascelli, con la stessa potenza di un tiro di destro di Totti, mostra ogni singolo fotogramma di quel momento. Ed è così che lo spettatore sente l’esigenza di fermarsi, prendere fiato, al pari di quanto accaduto alla “generazione Totti” dopo il cucchiaio al portiere olandese Edwin van de Sar alla semifinale degli Europei del 2000. Ma la narrazione è fluida, veloce e così quando lo schermo diventa nero, la tentazione è di rivedere subito il documentario, perché nello spettatore c’è la consapevolezza, la verità intrinseca che la storia tra Totti e la Roma è una storia che non conosce la parola fine.





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