I giudici sul Tuta time

Da retribuire tutto il tempo in cui si indossa la divisa

    di Adelaide Caravaglios

“Tuta time”: un simile binomio potrebbe lasciar intendere che si tratta di un richiamo alla palestra, alla vita sana, al mangiare bene, all’infilarsi le scarpette da ginnastica e correre ai ripari dopo la pausa pasquale, piena di prelibatezze di ogni tipo come il classico casatiello, ricco di calorie, o la pastiera, omaggio alla tradizione partenopea. Ma non è così! Il “tuta time” sarebbe il tempo impiegato dai dipendenti per indossare la tuta da lavoro, cioè la divisa aziendale: questo lasso di tempo deve essere calcolato ai fini della retribuzione o meno?

All’interrogativo ha dato risposta la Cassazione, intervenendo sul ricorso di alcune dipendenti di un’azienda deputata al servizio mensa, alle quali era stato richiesto dal proprio datore di indossare gli abiti prima dell’inizio del turno e che, tuttavia, non avevano visto retribuito questo momento nella propria busta paga: nella sentenza n. 7738/2018, i giudici della sezione lavoro − in ciò conformandosi a quanto già deciso in sede di appello − hanno spiegato che se è il datore a decidere come e quando si devono indossare gli abiti da lavoro, il tempo impiegato per farlo deve essere retribuito poiché rientra nell’orario di lavoro effettivo (nella decisione si parla di “eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa …”); se, viceversa, la scelta è rimessa al dipendente, detta attività organizzativa non andrà retribuita, trattandosi di operazione rientrante negli “atti di diligenza preparatoria allo svolgimento della prestazione lavorativa”.

“L’eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, che fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell’ambito del tempo di lavoro, può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa, o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione”, precisa la Corte: insomma, un boccone amaro da digerire per il datore che è stato costretto a pagare anche le differenze retributive!





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