LIBRI I fiori di carta
Nella sua ultima raccolta di poesie l'irpino Giuseppe Iuliano canta la fame di libertÃ
di Max De Francesco
Sfiancati spettatori di piazze che giocano al dissenso senza il rumore delle idee e di agoni politici in cui l’insulto e la parola disonesta umiliano il confronto, in una domenica infusa nell’acqua soddisfiamo il desiderio incalzante di ritrovarci in altri campi, aprendo e raccogliendo Fiori di carta (Delta 3 Edizioni) dell’irpino Giuseppe Iuliano, coltivatore di versi, sognatore di «capienza di grano» e innanzitutto soldato di libertà. La raccolta di poesie, impreziosita dalle parlanti illustrazioni di Giovanni Spiniello e dai contributi critici di Paolo Saggese, Dante Della Terza e Peppe Lanzetta, è una «chiamata» alle armi liriche indirizzata ai compagni di battaglie culturali e nobili ribellioni, citati a uno a uno, con nome e cognome, in uno smanioso appello che richiama gli adunati alla responsabilità poetica, all’eticità della cura letteraria, all’impegno di proseguire le conversazioni sotto il cielo anche se «il cerchio della paura/s’allarga nel vuoto» e «nessun tormento scuote/chi di sevizie ha ucciso il sole».
Chi innaffia il senso della lotta e insegna il coraggio della poesia, ha bisogno di sentirsi nel ventre di una milizia, immaginarne lo schieramento e la composizione soprattutto in quei momenti in cui si presenta l’urgenza di produrre il resoconto sulla parola scavata e su quella contraria, di programmare possibili condivisioni e inevitabili conflitti. Iuliano, colpito da un’insanabile «fame di libertà», autentica prima ragione della sua poetica, mostra quest’incombenza pasoliniana, tipica dei poeti civili dalle palpebre infuocate, di tirare le somme e motivare le truppe per motivare se stessi, perché «capita trovarsi margine/estraneo ai luoghi comuni/restio alle abitudini/eppure guerriero/tempra di cento battaglie/pronto allo stremo/ allo scontro allo sfascio», o perché «il tempo diventerà senza sosta/più pigro ed avaro/ a concedere proroghe/ a promesse e cambiali/prossime a scadere».
La guerra del poeta, combattuta tra succhi di verità e fiati trattenuti, nel regno verde e silente dell’Irpinia, in un Sud che «affoga nel mare mosso del provvisorio», non è guerra vinta né destinata a chiudersi con trofei o spartizioni, ma è spedizione romantica dell’intellettuale che sfida tempo e disincanto, vivendo con le mani nelle radici e gli occhi spalancati su «un granello di idea», prodigio che può salvare. Iuliano non si dà pace a inseguire e vivere la poesia; la rincorre con «fatica che turba» come i suoi amati generali Gatto e Scotellaro; la corteggia mai sprecando versi, preferendo parole perentorie, punteggiatura discreta e stando alla larga da esercizi d’evanescenza. La sua poesia non consola ma stimola il pensiero controcorrente e parteggia per ogni profeta che «riesce a parlare di cose vere/e sfida camicia di forza con fare ardito». La sua poetica ha l’essenzialità di un piatto contadino e la purezza di un goccio d’aglianico lontano dalla vanità dei calici. Leggere Iuliano, cogliere i suoi fiori saggi e fieri «tra gente che corre distratta» è palestra di slancio civile, sputo contro la diserzione, partecipazione al canto della notte.