Vittoria, racconto di un riscatto

Incontri particolari alla presentazione di un libro

    di Amedeo Forastiere

Altre volte ho raccontato d’incontri strani. Tutte le persone hanno una storia, qualcuna è molto interessante, qualcun’altra meno. Non pochi, sono stati gli scrittori che hanno realizzato romanzi di successo tratti da storie vere. Questa che vi racconto è una vera, che ho ascoltato con molto interesse raccontatami dalla protagonista. Spesso siamo troppo presi dai nostri problemi, e non ascoltiamo gli altri quando ci parlano di loro. A volte lo fanno solo per sfogarsi, liberarsi da un peso. Se noi ponessimo più attenzione alle storie degli altri, forse potremmo conoscere meglio la vita, e affrontare i momenti difficili in modo diverso.

La scorsa settimana, sono stato alla presentazione di un libro alla Feltrinelli a Piazza dei Martiri. Un autore che non conoscevo, anche perché era al suo esordio: Il primo libro. Un giornalista che raccontava dei suoi viaggi di lavoro: Confesso, poco interessante.

Oggi tutti vogliono scrivere, fare lo scrittore pare che sia di moda. La sala per la presentazione non era piena, c’erano ancora tante sedie libere. Si avvicina una giovane donna con modi educati, vestita semplice, con poco maquillage mi domanda: Scusi è occupata?  Poggiando la mano sulla sedia vuota alla mia destra. Le rispondo: No, se vuole, può sedersi. Di statura piccolina, una borsa pesante, in proporzione più grande di lei. Capelli raccolti, che mettano in risalto gli occhi neri e pieni di luce, due fari acuti. Dalla borsa prende una cartellina con dei fogli, per annotare appunti. Non so spiegarmi, ma c’è qualcosa che mi attira, di misterioso, e non è la sua bellezza, normale. Dietro di quella semplice faccetta quasi acqua e sapone, si nasconde qualcosa particolarmente interessante. Vengo corteggiato dalla tentazione di farle delle domande, ma è così presa dalla presentazione del libro, che non oso.

Alla fine della presentazione, l’autore ringrazia e saluta il pubblico, lei si alza con il libro che aveva già preso, e va per la dedica. Dopo la invito a prendere un caffè al piano di sopra: La ringrazio, ma se per lei fa lo stesso, preferirei prenderlo a un bar fuori. Si appoggia al mio braccio come si fa con il vecchio genitore. Non c’eravamo nemmeno presentati. Usciamo dalla libreria, allungando la mano si presenta: Serena. Gliela stringo e mi presento.

Per chi guardava, sembravamo padre e figlia.

Intuisco che lei non ha fretta ma voglia di parlare, così le propongo, dandole subito del tu: Ti va uno shakerato da Cimmino in via Petrarca? Idea fantastica, mi dice. Prendo l’auto dal garage, lei entra in macchina tenendosi la pancia, è incinta, probabilmente quarto quinto mese, non le domando niente. Durante il percorso da piazza dei Martiri alla via dedicata al poeta del trecento, le dico: Parlami di te, ti va? Non se lo fa ripetere.

"Ho trentaquattro anni, una vita molto vissuta. La mia storia è particolare, lunga, non vorrei annoiarti".

Le rispondo: "No no, assolutamente".

Mi domanda: "Ma tu cosa fai?"

"Scrivo, per hobby, cerco storie particolari, che non siano le solite minestre riscaldate, insipide, che hanno, la presunzione di essere quelle belle e gustose di Natale".

 Lei parte nel racconto, senza guardarmi, ma con gli occhi fissi sulla strada, come se a guidare non fossi io ma lei.

"Avevo quattordici anni, litigai con una compagna di classe, fuori da scuola, mi prese in giro chiamandomi brutta ranocchia; all’epoca ero un po’ rotondetta, mangiavo molta cioccolata. Presi l’ombrello che avevo con me, e glielo diedi con tutta la forza sulla testa procurandole una profonda ferita".

 Non mi ero sbagliato, la ragazza ha una storia interessante, voglio conoscerla tutta. "In verità, io non avevo odio contro questa ragazza, dello sfottò non me ne fregava niente, ero tanto arrabbiata; posso dire una parolaccia?"

Le do l’ok: "Vai, tranquilla, anche a me a volte scappa".

"Ero proprio incazzata nera. Cercavo la persona sulla quale sfogare tutta la mia rabbia, capitò lei, la compagna di classe. La presi come se fosse stata il capro espiatorio, le spaccai la testa, porta ancora la cicatrice".

L’ascolto senza interromperla. "Ero arrabbiata perché a casa mia si litigava sempre. Mio padre, a volte tornava un po’ sbronzo e picchiava mia madre. Lei era piccolina come me, lui alto e muscoloso. Quando le menava, cercavo di difenderla e le prendevo anch’io. Avrei voluto ammazzarlo, in vece lo amavo, nella consapevolezza, che quello che faceva a mia madre, non era giusto. Spesso i soldi non bastavano, e voleva che io andassi a lavorare, mentre, a me piaceva studiare. In poche parole tra casa mia e l’inferno c’era, una sola differenza, il calore delle fiamme. A casa nostra d’inverno faceva molto freddo, non si accendevano i termosifoni perché poi arrivava una bolletta salata, e sarei stata costretta a cercarmi un lavoro. Passavo le giornate a casa, con la paura che mio padre tornasse da un momento all’altro e picchiava mia madre. Tutta questa rabbia, mi portava a essere aggressiva con tutti, anche con i professori, li rispondevo in modo maleducato. C’era quella d’italiano che mi odiava; il sentimento era reciproco. Diceva che io nella vita non sarei riuscita a fare niente di buono, ero una selvaggia. La famiglia della ragazza che le spaccai la testa mi denunciò. Feci un processo (il primo). Poiché risultò mio padre alcolizzato, il giudice decise di mandarmi in una comunità, dove avrei potuto scegliere se imparare un mestiere o studiare, naturalmente scelsi lo studio. Ricordo ancora le lacrime di mia madre, quando i poliziotti mi portarono via ammanettata come una delinquente".

Alle manette, la guardo con sospetto, era poco più che una ragazzina, mi sembrò un fatto inventato, esagerato, lei comprende e continua. "Sì, le manette, perché sulla sentenza il giudice aveva scritto in rosso e a stampatello SOGGETTO PERICOLO, AGGRESSIVO. Come un vecchio camorrista".

Continua nel suo racconto, mentre io guido lento per impiegare più tempo ad arrivare al caffè Cimmino. Non voglio interromperla, ormai è partita in quarta - che storia interessante.

"La polizia, con gli assistenti sociali mi portò, in una comunità per tossici, in provincia di Napoli. Erano tutti ragazzi come me, solo che io non ero una tossica, e non capivo cosa ci facessi in quel posto. Il giorno dopo chiesi subito al direttore che volevo studiare, dovevo terminare il liceo. Avevo scelto il classico. Devi sapere che lo studio mi faceva evadere da quella realtà così ostile e violenta, nella quale ero nata e vissuta. La comunità è una sorta di prigione, si sei libero di girare per il cortile, non chiusa in una cella, ma fuori in strada non puoi uscire. La cosa strana, io ero poco più che una ragazzina, ma mi accorsi che lì dentro, dove c’erano ragazzi con problemi, che io non conoscevo, la droga, circolava, l’erba".

Le domando: "Marijuana e Hashish? "

Lei: "E non solo. Una sera ero distesa sul mio lettino, stanca avevo studiato tutta la mattina, e il pomeriggio ero stata di scopa, spolverare e lavare tutto il pavimento della camerata. Venne una ragazza, mi domandò: Sei triste? Disse prendi questa. Mi offrì una specie di sigaretta, tutta strana, io ricordavo quelle di mio padre, avevano il filtro, ed erano perfette nella forma. Comunque io non volevo, lei disse che mi avrebbe fatto bene, avrei sognato tanto, a occhi aperti. Non te la faccio troppo lunga, da quella sera diventai consumatrice di marijuana. Fumavo sempre di più. Qualche soldo mi arrivava da mia nonna che veniva a trovarmi, me li passava nell’abbraccio quando ci salutavamo. Dopo qualche mese passai a cose più pesanti; preferisco non entrare nei dettagli. Dopo due anni uscii con la maturità e qualche buco sulle braccia. Mia madre era morta, non mi avevano detto niente, per paura che non mi recuperassi. Quando domandavo a nonna perché mamma non veniva, mai trovarmi, mi rispondeva che era malata, ma che mi voleva bene e mi aspettava a casa. All’uscita dalla comunità procurarmi le sostanze diventò difficile, costoso, anche perché ero passato a quelle pesanti, costavano molto. Con la cocaina ebbi un arresto cardiocircolatorio, stavo morendo. Il medico in ospedale disse che la sostanza aveva danneggiato le ovaie; a volte la ingerivo sulla lingua. Con molta probabilità non avrei avuto figli". Si accarezza la pancia, poi prosegue: "Ormai ero una tossica, la sostanza costava troppo, prostituirmi per fare i soldi non ci pensavo proprio, facevo tanti piccoli mestieri ma quello che ricavano non bastava, spesso dormivo per strada sotto i portici della galleria. Una sera, in piazza dove trovavo chi vendeva la roba, una ragazza che si faceva di eroina mi propose di organizzare una rapina; la chiamò esproprio. Bisognava andare in una tabaccheria, l’unica aperta sino a tardi, il sabato sera aveva gli incassi delle schedine, lotto e superenalotto, tutto contante. Erano due vecchietti, marito e moglie, lei dopo le ore venti saliva su casa, alla cassa restava solo il marito. La ragazza mi disse che avremmo trovato molti soldi, era una cosa semplice, un gioco da ragazzi. Ti confesso che avevo paura, ma la tentazione era forte, poter comprare tutta la roba che volevo. Così accettai. Organizzammo per il prossimo sabato, dopo due giorni, la ragazza aveva anche l’arma, una pistola, me la fece vedere, grande, tutta nera, non ne avevo vista mai una prima. In poche parole il colpo era così: Lei entrava, puntava la pistola in faccia al vecchio, io andavo dietro la cassa e prelevavo i soldi che c’erano, banconote e monete, tutto. Portammo anche una busta di plastica, le tasche dei jeans non sarebbero state sufficienti. Così ci avviammo verso la tabaccheria, ti confesso che mi tremavano le gambe, per la paura e il ruolo in cui mi trovavo: io una rapinatrice? Avevo toccato il fondo! Ormai non potevo più tornare indietro, e poi avvertivo il bisogno della roba, ero in crisi, l’astinenza. Come stabilito, entrò lei per prima, io la seguivo attaccata: Fermo, questa è una rapina, non fare lo stronzo dacci tutto quello che hai in cassa e non ti succede niente. Io entrai subito, andai dietro la cassa, il vecchietto con le mani alzate, la faccia bianca, ebbi paura che gli potesse venire un infarto. Presi tutti i soldi, erano molti, li misi nella busta di plastica. Diedi un bacio sulla fronte al vecchietto, come una nipotina che ha fatto una marachella e vuole essere perdonata dal nonnino. Mentre la mia amica gridava: Dai fai presto scappiamo. Proprio in quell’istante si fermò un’auto dei carabinieri per comprare le sigarette".

Arriviamo al caffè Cimmino. Lei si ferma e dice: Adesso pausa, dopo lo shakerato continuo se ti va di sentire la mia storia. La osservo mentre beve  il suo shakerato cremoso, le labbra diventano come due Gianduiotti. Cercando di capire che altro avesse ancora da raccontarmi della sua vita da romanzo.Usciti dal bar, vuole fare due passi su marciapiedi che costeggia via Petrarca, come si fa adire di no?

Riprende il racconto. "Ci fu il processo per direttissima, flagranza di reato, in più una seria di aggravanti; per fortuna che la pistola era finta. Non avendo i soldi per un avvocato privato ci dovemmo accontentare di quello d’ufficio. Sette anni, al carcere femminile di Pozzuoli. Alla notizia del mio arresto, la nonna non ce la fece a reggere mori di crepacuore. Di mio padre non seppi più niente, rimasi sola, ma la cosa non mi preoccupava, avevo sette anni di galera da affrontare, e dimostrare a tutti che non ero persa, che ce l’avrei fatta, volevo il riscatto, la vittoria. Sono stati lunghi e duri, quei sette anni, ma anche utili. Mi sono laureata in Sociologia. Fu proprio durante il corso che conobbi un professore, dieci anni più di me, ma rispetto ai suoi colleghi era il più giovane. Prima iniziò una bella amicizia, ma poi dopo poco mi sentivo attratta da lui. Non era solo un fatto fisico si era un bell’uomo. Dopo un po’ di tempo, ci intrattenevamo spesso a lezione terminata, sentivo qualcosa dentro. Non ero mai stata innamorata, non avevo avuto tempo, quindi non conoscevo cosa si provasse quando ci s’innamorava di qualcuno. Lui era gentile, educato con tutte le ragazze del corso, ma con me, lo era di più. Beh per fartela breve m’innamorai, pur sapendo che fosse stata una storia impossibile. Io era una ragazza perduta senza speranza di un futuro, tossica, anche se, da molto non mi facevo più dopo un percorso di disintossicazione. Una condanna per furto, ma chi mi avrebbe preso? Lui professore di sociologia, figlio di un rettore universitario, la madre avvocata, io e lui due mondi in due galassie diverse. Comunque quel sentimento che provavo per lui mi faceva sognare, e trovare la forza di andare avanti: Scusa ma ti sto facendo perdere tempo raccontandoti la mia storia? E’ stato sempre così difficile trovare persone disposte ad ascoltarmi. Qualcuno che lo fa,  è solo per giudicarmi, farmi lezioni di morale, i professori di vita. Molti di questi la vita non la conosce per niente. Tu invece mi ascolti senza giudicare. Adesso ti dispiace andare al centro? Alloggio ancora per questa notte in un B&B in via Roma".

 "Certo che ti accompagno. Continua con la tua storia, non è finita vero?".

 "Si c’è ancora da raccontare. In poche parole mi ero convinta che non avrei avuto né figli né futuro. Gli anni passavano e il tempo per la liberazione si accorciava, mi domandavo cosa avrei fatto una volta fuori? Non avevo più nessuno, nemmeno una casa, la paura aumentava. La storia con il professore continuava, ma era solo platonica, nemmeno un bacetto, questo rafforzava sempre di più il sentimento amore. Come ti ho detto prima non ero mai stata innamorata, non sapevo niente di questo sentimento meraviglioso, ma mi sentivo bene, ogni volta che lo vedevo, ero felice, in carcere è una cosa rara ma importante. Si avvicinava la data della liberazione. Avevo superato con ottimi voti la tesi, ero fiera di me. Mi emozionai quando il professore, poggiandomi la mano sulla spalla disse: Congratulazione dottoressa. Dopo pochi giorni fui chiamata dalla direttrice del carcere, pensai che mi volesse affidare una nuova mansione, ero diventata dottoressa, invece no, con mia enorme sorpresa mi disse: Raccogli tutte le tue cose. Hai scontato la condanna. Il tribunale ha deciso di anticipare la scarcerazione di tre mesi, ritorni libera. Ti sei comportata bene, e poi hai conseguito la laurea in sociologia con ottimi voti. Forza, dottoressa sorridi, riprendi la vita, non quella che hai lascito e ti ha portato qui, ma una nuova. Sì, pensai, la vita, una nuova, ma dove? Non possedevo né una casa, né una famiglia. Le domandai, se fosse stato possibile qualche giorno in più, per organizzarmi. Non era previsto, ma lei capì e disse che potevo, a patto che non lo avrei detto a nessuno. Cercai subito il professore, era il mio unico appoggio. Non eravamo veramente fidanzati, anche se io ero perdutamente innamorata. Gli dissi che ero libera, ma non sapevo dove andare, così lui mi propose, se non avessi avuto nulla in contrario, poteva ospitarmi a casa sua, dove viveva ancora con la famiglia. Accettai subito. Aveva raccontato tutto di me ai suoi genitori. Fui accolta come una figlia, avevo trovato una casa e una famiglia.  Adesso siamo sposati, e grazie all’interessamento di mio suocero, oggi sono, un’educatrice per i ragazzi minorenni ospiti nelle strutture di recupero. Sono stata tre giorni a Nisida, incontro molto interessante con i ragazzi, ho promesso che non li abbandonerò, li comprendo perché sono stata una di loro".

Si ferma, mentre accarezza la pancia, le domando: "Maschio o femmina?" Lei: "Femmina".

Mi chiede di fermarmi perché è arrivata al suo B&B, prima di uscire dall’auto mi ringrazia per averla ascoltata, le domando: Hai già scelto il nome? Certo, è stato semplicissimo, anche perché non c’era da scegliere. Il nome di mia figlia è il mio grido di riscatto. La mia bambina si chiamerà Vittoria.    





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