Arte e comunicazione

    di Silvio Fabris

Mi permetto di cominciare con una notazione personale. Più di quarant’anni fa, quando esordivo nel mondo della pubblicità, nessuno di noi giovani e semigiovani credeva che la pubblicità potesse essere una forma d’arte. Anzi, quelli che ancora continuavano a parlare di arte pubblicitaria erano per definizione vecchi superati: perché erano i grafici puri o gli ultimi allievi di Boccasile e di altri autori di manifesti o cartellonisti, come ancora si diceva. Noi giovani credevamo alla fotografia, alla televisione. Era il momento della pubblicità parascientifica contro la pubblcità intuitiva, era il momento dell’infatuazione delle ricerche delle nuove regole della comunicazione anglo-americana.

Eppure questa identificazione possibile fra pubblicità ed arte era stato un argomento interdetto, un’identificazione negata con orrore, non soltanto dai critici, ma dagli stessi pubblicitari: e la discussione era stata accantonata per più di vent’anni. Questa negazione era una conseguenza del grande cambiamento apportato dagli anglo-americani con le loro agenzie a servizio completo, che verso il 1960 avevano introdotto anche in Italia il concetto della pubblicità come strumento del marketing mix. Fu evidente fare apparire vecchia e superata sbagliata la pubblicità dipinta e grafica, la pubblicità degli artisti o di coloro che si definivano tali. Non a caso nel mio libro “Con le zampe di elefante” ho dichiarato che la pubblicità non è arte, facendo un distinguo ben preciso. L’arte è espressione del singolo, mentre la pubblicità è espressione del gruppo, per il semplice fatto che il risultato finale (uno spot o un poster etc.) è il frutto di più “cervelli”, a differenza del dipinto o della scultura, espressione del singolo artista. 





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