Culture in pellegrinaggio
Pompei e El Rocio, quei chilometri che temprano i fedeli
di Maria Regina De Luca
La fede assume, presso i vari popoli, espressioni e manifestazioni spesso diverse tra loro, ma congeniali al carattere dei fedeli, alla loro storia e alla loro cultura. Le funzioni religiose rientrano a pieno titolo in quel bisogno che ha l’uomo di esternare i propri sentimenti, di comunicare stati d’animo, le tristezze come i momenti di allegria: in una parola, il bisogno innato di teatralizzare la vita. Perché fin dalla nascita, ancora ignaro di ricatti e di sotterfugi, il neonato per puro istinto teatralizza le sue esigenti richieste in modi diversi, avvertendo le differenze tra i diversi addetti alla sua personcina. Fatti fin dalla nascita della stessa materia della quale sono fatti i sogni, ma anche di carne e ossa che vi contrappongono la cruda realtà della dipendenza dagli altri, mettiamo in opera le nostre performance adeguandole all’interlocutore, e senza poter essere accusati di finzioni o ambiguità perché chi ci sta intorno, spettatore o comprimario, agisce esattamente come noi. Questa consuetudine alla teatralità dell’agire umano si esprime alla grande nelle manifestazioni religiose, tra le quali le processioni occupano un posto a parte. Qui non v’è il caldo clima d’accoglienza della chiesa col suo profumo d’incenso, né suoni d’organo o rintocchi di campane, tutti elementi di un comfort estetico che contribuisce a porre il praticante a suo agio e a soddisfargli quel senso di protagonismo che l’ambiente sembra aver allestito in suo onore. Perché nella processione il fedele mette in gioco se stesso, la sua forza di resistenza fisica e la temperatura della sua fede.
Per noi napoletani, i racconti sulle processioni risalgono in casi sempre più rari alle mamme, ma sono state le nonne a percorrere strade rionali o cittadine al seguito del santo adornato di fiori, tra ne nuvolette d’incenso e i canti dei fedeli e sono state sempre loro ad andare a piedi a Pompei per voto, a percorrere i circa venti chilometri delle strade dei paesi che da San Giovanni a Teduccio portano alla bella e fiorente Pompei. Se è l’eventus che dà fama a un luogo aprendone le barriere geografiche, Pompei ha avuto la fortuna-sfortuna di esser stata sede di un evento naturale che l’ha resa famosa nel mondo, l’eruzione del Vesuvio, che ha distrutto vite e case ma ha lasciato agli eredi un patrimonio fonte di reddito che non teme cadute in borsa, per giunta consacrato dalla fede e dalla carità di un benefattore, il-Beato Bartolo Longo, che seppe dare alla sua carità le ali per volare alto e far da esempio e da polo d’attrazione per i fedeli di tutto il mondo. Non è facile far gemellaggi o paralleli tra Pompei e altri luoghi di culto, ma leghiamo il percorso di fede delle nostre nonne a Pompei, del tutto in disuso, a quello che in Spagna avvia tuttora milioni di pellegrini verso il piccolo paese del Rocio dove la Vergine, la Bianca Paloma. È in attesa tutto l’anno per accoglierli nel giorno del loro arrivo, dopo decine di chilometri di un percorso a dir poco disagiato, attraverso il deserto. Ma, se la Madonna del Rocio e quella di Pompei s’identificano nel sacro mistero della Madre di Gesù, sono ben doversi i comportamenti dei carovanieri del Rocio da quelli dei devoti di Pompei. Se tutti sono mossi dagli stessi sentimenti, dallo stesso bisogno di manifestare la propria devozione non solo con una preghiera, ma con una "fatica" fisica che richiede un sostegno mentale e un’organizzazione pratica, ben diversi sono gli ostacoli da affrontare.
I viandanti d’amore verso Rocio sanno che davanti a loro c’è il deserto, con i suoi pericoli e i suoi inganni. Nella edizione di questo maggio 2016, la carovana di cavalieri, carri, mucche da carico e pedoni ha affrontato, sapendolo, una settimana di bufere e ha piantato le tende nel terreno bagnato inzuppandosi fino al midollo. Sotto la pioggia, nelle soste, si sono consumati i riti propiziatori, non per la vergine, ma per gli stessi viandanti che non si sono fatti mancare cibi, abiti rituali, musiche e danze per dimostrare a se stessi e al mondo che il pellegrinaggio del Rocio non è un sacrificio, ma un’occasione di gioia. Ho partecipato quest’anno, per la seconda volta,alle danze, ai canti, alla preparazione di cibi scelti con la lungimirante sagacia di nutrire il corpo e consolare l’anima, ho capito che per loro questo sterminato vagare per il deserto nelle condizioni atmosferiche peggiori che si possano immaginare non è pagare lo scotto per ottenere una grazia, come forse lo è per noi, ma è la metafora del cammino della vita dove gli ostacoli vanno affrontati e i problemi risolti, pena la sosta che può esser mortale. Le danze nei vestiti flamenchi ornati di rose sono le forme che aggiungono al coinvolgimento etico quello estetico, perché da entrambi parta l’imposizione di ridimensionare gli ostacoli, di andare avanti, di presentarsi alla Madonna non solo per chiedere miracoli, ma per offrirle con i suoni delle sevillanas religiose una duplice fiducia, in lei e in sé stessi, di potercela fare, maturata in una settimana di percorso interiore ben più arduo di quello sotto la pioggia battente del deserto. La festosità che accompagna il viaggio, facendo dimenticare il continuo attentato al quale sono sottoposti piedi, bronchi e polmoni fa ogni volta il suo miracolo, perché all’arrivo la carovana è pronta e in piena salute per ricevere un battesimo dove l’acqua lustrale è un delicato vino dorato che sarà cosparso sul capo del ribattezzando e bevuto da lui, rinnovando il rito dell’eucarestia istituito da Cristo duemila anni fa.
Se profonde sono le differenze tra i comportamenti dei fedeli nostrani e questi con i quali ho fatto la mia seconda esperienza di pellegrina, abissale è la differenza della composizione anagrafica, che non esclude i partecipanti perché troppo vecchi né li "preserva" perché troppo giovani, come avviene da noi. Qui il rispetto per la tradizione è imperativo categorico, e sarebbe considerato un delitto non trasmettere questi usi che sono altrettanti motivi di crescita interiore e di compattezza sociale e civile. Sono questi i casi, per chi vive all’estero, di constatare quanto la storia, la cultura e l’educazione di un popolo ne modelli i comportamenti cambiandone la vita e quanto conti tutto ciò sui giovani, che dall’ambiente e dalla società che li ha formati acquistano certezze e fiducia, oppure debolezze e sconforto, e quella frattura generazionale che è anche perdita di un patrimonio spirituale e culturale che non può che impoverire l’eredità di un passato condizionandone le scelte e influenzando ne in modo spesso irreversibile il futuro.