Ero e Leandro, storia di un amore marino
Navigare nella passione: nuova puntata della rubrica «La persistenza del mito»
di Sveva Della Volpe Mirabelli
Sesto, antica città del Chersoneso Tracico. Era il giorno delle solenni Adonie, feste annuali dedicate ad Adone e Afrodite. Dai paesi vicini, dalla Tessaglia, dalla Frigia, dalle isole egee, da Cipro e dal Libano una grande folla accorse per le celebrazioni. Un corteo di vergini sfilava verso il tempio della Dea per compiere i rituali sacrifici in suo onore. Tra le fanciulle una splendeva in modo particolare: "S'ella movea sotto suoi piè le rose/Pompa facean di lor natia bellezza,/E dalle membra tutte traspirava/Folto drapello di venuste grazie". Ero, ministra dell'Afrodisia Diva, qui nelle parole del poeta greco Museo, che alla sua struggente storia d'amore dedica un famoso epillio, Ero e Leandro.
La sua grazia era tale da catturare sguardo e pensiero dei giovanetti presenti, senza alcuna eccezione. Solo uno però, Leandro, colpito dagli ardenti strali di Cupido, osò avvicinarsi: "L'occhio è la strada, e dal corrusco lampo/Dell'occhio feritor s'apre la piaga/Che va l'interno a ricercar dell'uomo./Ei fu compreso in questo punto e stretto/Dallo stupor e dall'audacia insieme/E dalla verecondia e dal tremore./Il cor gli palpitava in fiera guisa,/Né del pudor lo ratteneva il freno".
Dapprima dialogarono nel silenzio i loro sensi. Il desiderio cresceva, tra la ritrosia della vergine e occulti segni d'intesa. Appena gli apparve più docile il cuore di lei, la trasse lontano dal tempio e, vincendo le ultime resistenze, già "messaggere d'amorosi congressi", la baciò. Il vagheggiato cuore di Ero fu sedotto: "E già d'amor le riscaldava il seno/Un commisto ad amar stimolo dolce,/E 'l suo vergine cor d'un grato fuoco/Dolcemente abbracciava, e alla bellezza/Dell'amabil Leandro istupidiva".
Tuttavia Ero avvertì Leandro dell'impossibilità della loro unione, non consentita dalla sua condizione di sacerdotessa e di eremita per severa volontà dei suoi genitori. Abitava in un castello nei pressi di Sesto, isolata, in compagnia della sua sola ancella, avendo come unico vicino il mare. Lo straniero, Leandro, nativo di un'antica città della Misia, Abido, viveva sulla riva opposta dello stretto. Alle parole dell'amata non concesse disperazione. Immediatamente promise di solcare a nuoto il canale ogni notte per farle visita, purché lei accendesse dalla sua torre una lucerna a fargli da segnale e guida. Così si accordarono e si separarono.
Da quel momento altro non attendevano durante il giorno che il buio calasse, complice del loro talamo. Il forte amante divenne per se stesso remigante, passeggero e nave. Verso l'amata audace nuotatore, di ritorno in patria naufrago. Lei, a ogni faticato approdo, lo accoglieva con premura. Gli asciugava i capelli inzuppati d'acqua marina e il corpo, gli cospargeva le membra di un profumato unguento. Lo stringeva a sé. Di giorno vergine, di notte sposa.
Giunse l'inverno e la traversata di quel tratto di Ellesponto cominciava a farsi sempre più ostile. Una notte non particolarmente propizia, al richiamo della fiaccola accesa sulla costa dirimpetto, il giovane volle ignorare il pericolo del mare battuto dai venti e si tuffò. Lottava tra i flutti, tra correnti contrarie, ma nuotava, nuotava... finché i venti non soffiarono sul lume e crudelmente anche sulla vita del povero Leandro, che, esausto, rimase senza alcun riferimento.
Intanto Ero si tormentava nell'attesa e fino al mattino cercò con lo sguardo il suo amato dall'alta torre. Lo vide infine, ai piedi di questa, cadavere. Si stracciò la leggiadra veste dal petto e si precipitò a capofitto sugli scogli. "Così sul morto sposo Ero morìo,/E si godero ancor nel fato estremo". L'amore è il faro dei naviganti, il mare la sua esperienza.