Perito, tributo ad Andrea Celano

Al via il premio intitolato all'artista "delle cose bellissime"

    di Max De Francesco

L’8 settembre, nel borgo cilentano di Perito, spazio al tributo ad Andrea Celano, l’artista “delle cose bellissime”, con la prima edizione del premio artistico a lui intitolato, un’estemporanea di pittura che, come hanno scritto gli organizzatori, serve a ricordare «un caro amico che con la sua arte ha portato il nome di Perito in giro per il mondo». L’evento, organizzato dalla Pro Loco di Perito, curato da Michelangelo Cirillo in collaborazione con Marilena Celano, con il patrocinio del Comune di Perito e il contributo della Fondazione Grande Lucania di Vallo della Lucania, sarà una sfida a colpi di pennellate e intuizioni che trasformerà la piazza del paese in un campo fiorito di cavalletti per onorare un plasmatore di antichi sogni e favole lucenti. 

Ripubblichiamo un ricordo di Andrea Celano, a firma di Max De Francesco, uscito due anni fa sul Corriere del Mezzogiorno. 

 

L'UOMO DELLE COSE BELLISSIME

Ho conosciuto l’uomo delle cose bellissime in quel Cilento fulminato dal disincanto. Leggeva Flaiano sapendo che «i giorni indimenticabili sono cinque o sei in tutto, gli altri fanno volume». Citava Gatto spesso nella controra rovente, cantandone i versi che educano alla tenacia: «O mio padre costrutto / paese che mi chiami a insistere. / A tenere coi denti d’ogni frutto /  il segno e la fattura. / O mio padre deserto / e tenerezza dura / di collera e d’orgoglio». Seguiva nell’arabesco della vita la traccia di Saramago che in Piccole memorie consiglia di lasciarsi accompagnare dal bambino che si è stati. Attraversava Perito, suo padre-paese e venerata ampolla di pietre, con passo socratico, pronto a fermarsi al bar o in piazza per una spacconeria improvvisa o una folata di pensieri, riprendendo poi il cammino lento come i passanti di Utrillo. Professava la mistura delle visioni, chiuso come un tesoro in quello che un tempo era lo scrigno del padre fabbro, dove plasmava materia e spirito, fermava volti spaccati di rughe su carta acquarellata, innalzava staccionate di fiori e siepi indomite in cieli clementi, pennellava limoni fluorescenti, saraghi sognanti, feroci marine e capannelli di bagnanti distratti.

Ho mangiato con l’uomo delle cose bellissime nel suo spaccio creativo. Era una sera senza clamori, seduto con amici in un assedio di peperoni al suo tavolo privo di piatti, matite e carboncini allineati come posate, torri di libri ovunque, un melograno immacolato a guardia di un vassoio di fichi neri, un cavalletto che baciava una finestra stellata, una bronzea donna nuda inarcata come una pantera in attesa dell’assalto, pile di tegole d’argilla e quel pane del giorno prima tagliato in un amen, con fette scrupolosamente inondate d’olio, benedette con gocce di vino e infine farcite d’acciughe e origano. Tornato con occhi pirateschi dalla sua cambusa - traballanti mensole su cui riposava l’occhio dell’orto - decise il piatto del convivio: zitoni spezzati con pomodorini e superbe melanzane. Una lattuga fresca e tocchetti di pecorino completarono la cena dove vino e Calvino, lezioni di terracotta e lezioni americane ci scortarono nel confessionale della notte.

Leggemmo poesie con l’uomo delle cose bellissime. Le sue, scritte d’istinto e meditate nel passeggio, raccolte in un’agenda lercia e magica. L’attesa dell’amore tra fioriture struggenti: «Verrai, amore, / con i tuoi occhi perduti, / con le tue mani tese»; la contemplazione del suo borgo e del suo cielo: «Quassù questo vento / appartiene al futuro / e la scarsa fortuna che ci è concessa / e le azzurre bugie / fanno parte della fatica strana di vivere / l’intimità della notte / mi aiuta a conoscere / questo tempo nuovo / che porta il tuo nome / sopra il mare di ginestre / inebrianti / il cielo è pieno di stelle / e mi ostino a contarle / per cercare la mia»;  quell’immenso “sì” alla vita anche quando il sole è freddo: «Non so dir di no / ad un’esperienza vissuta davvero / ad una maturazione attesa / fantastica più della gioventù / a questa prossima primavera / alla forza della vita / non so dir no ad Andrea / a questi blocchi d’argilla che urlano / a queste tele bianche immacolate / ed alla hb già pronta / sulla carta dei bozzetti / debbo fare cose bellissime / e fuori c’è la primavera in arrivo / le gemme sono gonfie / e lo scirocco presto verrà / con le sue calde folate / non so dir di no a te / che vieni a riscaldarmi il cuore / …vorrei dir di no / alle soluzioni definitive, ai compromessi / alla morte di Dalia, di Marco e di Eugenio / e allora dico di sì, dico di sì alla vita / per quella che è / per come ce la raccontiamo / all’ironia, alla fantasia / a quel pirotecnico pulcinella / che è in ognuno di noi / e che noi visitiamo tanto spesso / e presto è carnevale / alle mie rose rosse, a tuoi sorrisi / a tutto / alle briciole sparse sul tavolo / non so dir di no / vorrei dir di no / dico di sì».

Ho conosciuto Andrea Celano, l’uomo delle cose bellissime, in quella notte entrata nella galleria dei miei giorni indimenticabili. Ne compresi lo sguardo e il silenzio, il ghigno spettacolare e il vortice delle mani. Capii a quel tavolo, dopo aver ascoltato il ritmo dei versi e ispezionato opere sparse e visioni abbozzate, che Andrea, scultore, pittore e bardo, aveva consacrato la sua vita al “tratto”. Il tratto della sua poetica si reggeva nel tratteggiare un carattere, un oggetto, un’azione, una sensazione tagliando il superfluo per puntare all’essenziale voce, alla sintesi del cuore. Applicava quel credo ermetico quando ritraeva amici o sconosciuti accennandone uno spicchio del volto che bastava a cogliere il battito del momento; quando scolpiva e fabbricava figure volutamente incomplete; quando “levava il peso” ai paesaggi e consegnava vedute in dissolvenza come il tepore dei sogni. Che fosse un bozzetto o un verso, un pezzo di legno o un impasto argilloso, mirava dritto al buco dell’anima, perché era un predatore della brevità, uno studioso del “frammento” di vista. La sua filosofia poteva essere racchiusa in un giro: l’arte è tratto, dunque è tratta.

Sono stato amico di Andrea Celano, l’uomo delle cose bellissime, vivendone la grandezza e l’esilio creativo nel profumo greco degli agosti cilentani. Promuoveva il ritorno alla terra e incarnava il Sud che si difende creando. Seppe convivere con la bestia del destino tirandole addosso sorrisi e tavolozze. L’epilogo del corpo non ha sfiorato l’infinità delle sue opere né la memoria di quella notte di fine estate, intatta e pulsante, mentre seduto al tavolo con lo sguardo nell’agenda, sfottendo l’ultimo sigaro, c’insegnava a fare cose bellissime e a dire sempre di sì. Non so dir di no, vorrei dir di no, dico di sì…





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