La forza del primo Leonardo Sciascia

Perché leggere il romanzo d'esordio 'Il giorno della civetta' dello scrittore siciliano

    di Roberta Errico

Il maestro di scuola elementare Leonardo Sciascia pubblicò il suo primo romanzo nel 1961, il titolo è "Il giorno della civetta". Il racconto trae spunto dall'omicidio di Accursio Miraglia, un sindacalista del partito comunista, avvenuto a Sciacca nel gennaio del 1947 ad opera  della mafia. Nella piazza principale di un piccolo paesino della Sicilia, mentre sale sull'autobus per Palermo, viene ucciso Salvatore Colasberna, il presidente dell'impresa edilizia Santa Fara. All'arrivo dei carabinieri, i passeggeri si allontanano alla chetichella, nessuno sembra essersi accorto di nulla o ricorda alcun particolare. Dopo due ore di interrogatorio solo il venditore di panelle ricorda che, all'angolo tra via Cavour e piazza Garibaldi, verso le sei, ha sentito due spari provenire da un sacco di carbone situato vicino al cantone della chiesa.

Le indagini vengono affidate al capitano Bellodi, comandante della compagnia di C., originario di Parma, un ex partigiano che svolge il suo lavoro in nome di alti ideali e che, di conseguenza, è molto infastidito dal clima di omertà che si respira in Sicilia. L'assoluta onestà e la grande perspicacia del capitano Bellodi lo inducono a parlare, riguardo all'omicidio di Colasberna, di delitto di stampo mafioso: una circostanza poco gradita persino nei palazzi del potere di Roma, nei quali si auspica un suo trasferimento. Bellodi, intanto, con grandi difficoltà, ma forte dei lunghi anni di esperienza sul campo, riesce ad ottenere alcune indicazioni da un informatore,  un noto doppiogiochista che lavora sia per le forze dell'ordine, sia per la mafia: Calogero Dibella detto Parrinieddu. Il capitano, poco prima della morte di Dibella, ottiene i nomi di Pizzuco, Marchica e del padrino don Mariano Arena. Bellodi interroga i tre, ma l'interrogatorio si risolve in un nulla di fatto.

I giornali, purtroppo, completano l'opera e insidiano le indagini portate avanti da Bellodi: compare sulla carta stampata la foto di Don Arena insieme al ministro Mancuso e all'onorevole Livigni; a dimostrazione dei poteri forti che lo sostengono. Il fatto porta a un dibattito in Parlamento al quale partecipano anche due anonimi mafiosi.

Chiamato a testimoniare in un processo a Bologna, intanto, il capitano Bellodi, affranto, chiede una licenza, che decide di trascorre a Parma, in famiglia. Ed è a Parma che apprende che la sua indagine è stata demolita da “inoppugnabili alibi". Bellodi legge sui giornali spediti da un carabiniere dalla Sicilia, che il castello probatorio è stato smantellato grazie ad un alibi di ferro costruito da rispettosissimi personaggi a vantaggio di Marchica per rompere il suo collegamento con Don Arena: opera di uomini politici interessati a tutelare la propria posizione.

 





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