Scatta Pantani
A dieci anni dalla morte riviviamo il mito del Pirata
di Max De Francesco
A dieci anni dalla morte di Marco Pantani riviviamo imprese, cadute e risalite del Pirata. E' l'unico modo che abbiamo per testimoniare il nostro sconfinato amore per il ciclista romagnolo. Non siamo soli in questi giorni di ricordi e rimpianti.
Agosto 1998 (Tour de France '98)
E i miti si fanno vivi all’ora propizia, mentre il cielo si scioglie, gli uomini non fanno gli uomini, i mediocri dettano legge e il Fato zuzzurellone s’accanisce perfino nell’ultima passerella dei Campi Elisi, bucando le ruote al campionissimo. Ma è solo una bislacca mazurca parigina, un liscio romagnolo con suspense. I miti riaffiorano quando - scrisse Ernst Jünger - «l’epoca è scardinata e si trova nel cerchio magico del pericolo estremo». Il pericolo di perdere la faccia, di smontare la dignità, di lasciare per strada il coraggio come se fosse un gregario fottuto. Stavolta il mito s’è messo in bici sbucando dal regno della pioggia non appena la strada ha preso a salire. Il mito è scattato col sole tra le ruote e quella faccia da galeotto, smaniosa di ali, verso tesori che gli altri non vedono. I tesori sono i sogni dei pirati. Marco Pantani da Cesenatico ha spalancato porte in quel cerchio magico e illusorio dove gli uomini si danno appuntamento per non sognare più; ha consegnato il Tour all’epica e non all’epo, e per farlo ha dovuto assolutamente puntare all’impresa. Ancora sognanti siamo sul Galibier. Forse perché abbiamo cuori che a volte s’arrendono, si gonfiano come gli occhi di Ullrich e mollano nelle ascese di questa vita più dura del Mortirolo. Ma se si cade sette volte, otto volte bisogna rialzarsi. Questo è Pantani, questo è il suo ciclismo. La sua storia dovrebbe essere narrata nelle scuole perché il mito è narrazione, è tragedia e trionfo, gioco e massacro, è un ossimoro al quadrato. Le bizze degli dei finirono per porgli sulle strade gatti e gipponi affinché lo distogliessero dalla sua corsa verso le città sognate. Dissero i medici che era un ciclista da rottamare, uno che avrebbe potuto andare a far la spesa su quelle bici con il campanellino e il paniere. Ma furono visti, in quei giorni sventurati, i suoi occhi riempirsi d’artigli. Se ne accorse Luciano Pezzi che lo ingaggiò nella Mercatone Uno formando una squadra di scalatori per quel mingherlino ancora in lotta con il mondo, sveglio e forte, unico, mai domo, con la gamba sinistra merlettata di cicatrici. Il resto è risaputo, le sofferenze risvegliano gli eroi. Parigi non sembrava più lontana. Sul Galibier, a 50 chilometri dall’arrivo, abbiamo capito che il Pirata rampante voleva spaventare gli dei, sfidarli, ma stavolta niente imboscate. Sotto un diluvio romantico e bastardo una piccola piadina, dai sandali alati come Perseo, toglieva il peso alle montagne. Le montagne, queste Gorgoni solitarie che trasformano uomini in statue, cuori e polpacci in pietra. Il mito parla chiaro: l’unico eroe capace di tagliare la testa alla Gorgone fu Perseo che non rivolse il suo sguardo sul volto del mostro ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo. Pietrificati Ullrich e Riis, Pantani-Perseo, leggero come il vento e le nuvole, non le ha guardate mai le montagne. Le ha immaginate davanti a sé, le ha viste, dopo ogni pedalata, morire sotto i suoi piedi: la strada è stata il suo specchio, la sua salvezza, il suo scudo. È andato tra le Gorgoni, contro le congiure del cielo, sentendo solo i battiti del cuore. È andato su per quei monti che, per dirla alla Buzzati, toglierebbero il fiato alle aquile. In un’Italia di banditi e pusillanimi, di poeti e scamiciati, di buonisti e mezzeseghe, c’è un girino che è nato per “scollinare” i pronostici, spiazzare la ragione, smentire il popolo dei catenacciari: pedala e crea nuove corsie, manti di ali, spazi di euforie antiche. Parigi, o cara! Trionfa là dove una ciurmaglia di calciatori guidata da un mister ragioniere, giocava per lo zero a zero. Pantani gioca all’attacco, al diavolo numeri e tabelle: non importa come andrà, ciò che conta è attaccare, soffrire, cadere, rialzarsi, tentare, andare oltre il cielo. Qui non ci sono né panchinari, né calci di rigore, né filosofi del calcio d’angolo, né dichiarazioni studiate a tavolino: c’è un uomo di mare, solo per forza, su strade senza panchine e senza ombre. Quando parla gli capita di scrivere fiabe: al Giro, prima della cronometro decisiva, disse: «La maglia rosa? Se devo mollarla, solo da morto...». Dopo l’impresa del Galibier, ha detto: «C’era la forza di Ullrich a schiacciare il sogno. Ho rischiato di saltare. Sì, perché quando parti non sai mai dove vai a finire. Provare da lontano, giocarmi tutto: mi ha aiutato il mio coraggio...». Il calcolo non ha mai creato eroi. Pantani non ha calcolatrici. Sa cantare - vuole andare a Sanremo - non sa contare. Un eroe nato per farli i numeri, anche se sulla carta i conti non tornano. Parigi, o cara! Dopo la faccia d’angelo di Gimondi, il volto discolo del Pirata. Ullrich a oltre tre minuti, Riis disperso, Jalabert è rimasto sulle montagne. Ma è tutto sballato, chi ha fatto questi calcoli? Un certo Marco Pantani da Cesenatico, maglia rosa e maglia gialla, e non finisce qui. È cresciuto nei cortili della fantasia, ha studiato nelle aule delle favole ardenti, dove insegnano che quando osiamo gli angeli ci circondano. Basta scattare dal buio della pioggia, all’ora propizia, senza mai chiedersi il perché di tanta fatica. E pedalare, ansimare e sognare finché la montagna non s’inchina ai tuoi piedi alati, scricchiolando come la tua schiena dopo l’ultima incredibile ascesa.
Giugno 1999 (Giro d'Italia '99)
Lo smantellamento di un mito avviene con la rapidità con la quale si eliminano, imbottendoli di tritolo, i grattacieli che non servono più. Un polverone immenso, e le stanze non stanno più in cielo. Avevamo un uomo sulla bici, stranamente italiano, con gli occhi candidi e gli artigli nel cuore, che non appena i dinamitardi del Fato si divertivano ad annientarlo, a demolirne la resistenza donandogli auto esplosive e gatti coglioni, aveva la capacità di ricostruirsi, di rifarsi le stanze dove ritrovare un grido. Due tre pennellate, due tre pedalate, e quell’uomo di Cesenatico ridiventava grattacielo. Spuntando solo al comando, sui monti della leggenda, lo vedevi toccare le nuvole fino a farle scoppiare di pioggia. Questo successe sul Galibier, sul Gran Sasso, e su mille vette ancora. La sua Impresa di Ricostruzione era l’Impresa. Impresa come dovere supremo, come urlo d’eroe, volo di poeta. Lo chiamarono il Pirata per quel suo volto da tigre di Mompracem, per quella lealtà di guerriero maestoso, per quella convinzione romantica di voler trovare a tutti i costi i tesori sulle montagne pur sapendo che era solo un uomo tra quei galeoni, giudici rocciosi. Fu così che riuscì, quasi dal nulla e senza i soldi di nessuno, a fondare una nuova città, una città di poeti, di bambini, di coppiani e bartaliani, di rinascenti giorni, di adunate briose, di promesse mantenute, di piadine e di salite, di piogge, di nuvole, di Mortiroli sognati, di fiammanti biciclette allineate come viole appena fiorite. Fu così che il Pirata, cadendo e rialzandosi sempre, rifondò un ciclismo ormai parco, abituatosi a essere comandato da cervelli gregari e cuori al cronometro. Ieri a Milano faceva freddo. Ivan Gotti, il secondo, ha vinto il Giro d’Italia, Marco Pantani, il primo, ha vinto il Girone d’Italia. Paradiso e inferno, dal cielo al fondo. I bambini, vispi e colorati come le bici e i fiori, aspettavano il loro Pirata, il loro omino che gratta il cielo. Che cosa avete detto, papà e mamme, ai vostri bambini? Come gli spiegherete che il loro eroe è accusato di doping? Ditegli che mentre stava riposando lì sulla montagna, tra i suoi tesori e i suoi pirati, lo hanno rapito degli uomini vestiti bene e senza bandana; raccontategli che il loro eroe ora è chiuso in una stanza con una mano ferita e gli occhi bui, e dalla finestra guarda il mare aspettando un galeone di bambini che gridano il suo nome; ditegli che sarà dura, che c’è un’altra salita, che la notte il loro eroe sogna draghi e monti. Ditegli che un giorno tornerà più forte di prima. Non ditegli la verità ai vostri figli, perché verità non c’è, perché le mezze verità ballano sul proscenio come i Cipollini sulle cime. Processare il Pirata è bello, basta guardare i processi innalzati, sentire quello stuolo di imbecilli smontare, quasi con goduria, la credibilità di un uomo che ha dato se stesso al ciclismo, spesso rischiando di rimetterci la vita. Siamo il paese dei compromessi vergognosi, degli arresti facili, dei regolamenti dementi, delle inchieste dietro l’angolo, del “tengo famiglia” senza dignità, degli scrigni mai aperti perché il coraggio è un fantasma, e sapere che uno come il Pirata è sospettato di aver fatto uso di sostanze dopanti, non può, per alcuni, pienamente italiani, che far piacere, anzi divertire, rassicurare. Nelle fabbriche dei mediocri, che preferiscono innalzare sgabuzzini e affidarsi alle imprese degli altri, si respira un clima di rilassamento nel vedere l’eroe nella polvere. Si parlerà nei prossimi giorni di sangue sequestrato, di sangue ossigenato, e nutrito sarà il gruppo di quelli che dimenticheranno il sangue romagnolo. Altri processi, fiumi di interviste a luminari e a lumini, segreti e bugie, dispetti, chiachia-chira chiachiachia... Che se ne importano i bambini di questi balli del demonio? Dov’è il loro eroe che vinceva il giro grattando i cieli? Papà dov’è Pantani? Ditegli che guarda il mare e sogna le montagne, quei galeoni rovesciati. Raccontategli che lassù qualcuno lo odia, ma lui pedala pedala... Ditegli che al Pirata hanno rubato il tesoro. Ditegli che andrà a riprenderselo. E lo farà solo per loro.
Pirata 2000 (Il ritorno)
Condannato ad alzarsi sui pedali al primo cavalcavia, dovrà castrare le ignobili maldicenze che gli staranno addosso come il numero di gara sulla schiena. La paura e la furia, trattenute nei suoi occhi già armati, finiranno per sorprenderlo, come i colpi di un cecchino appostato dietro una cortina di monti togati. Rimarrà grandioso il suo sogno immacolato di scalatore: staccarsi dall’ombra non appena la strada alza la lingua; riprendere l’ombra all’arrivo, quando spaurita e sola come una mantellina, ignorata dalla folla, insegue il suo eroe che l’ha lasciata prima della salita per non farla più soffrire.
14 febbraio 2004 (L'ultimo giro)
Non ci interessa come sia morto né come si sia impiantato nelle tenebre: come ha vissuto sulla bici, questo ci sta a cuore. Possiamo mai ascoltare le cagnare mediatiche e il macabro gioco delle illazioni? Possiamo mai dar retta ai Torquemada di turno, spavaldi conoscitori di un uomo campionissimo? Mai. Nel nostro dolore furioso come la pioggia del Galibier, vogliamo gridare il nome del nostro eroe, del nostro ultimo eroe: Marco Pantani. Pedala a fatica il nostro cuore in queste ore inchinate. Arranca la nostra vita perché un mito che muore impoverisce una realtà che stramuore. Un alunno del vento è chiuso in una bara, perché è questo che vediamo tra ali di folla che aspettano ancora un pirata che porti nuovi tesori. Ma il vento non può essere fermato. Il suo vento, quello che tira in salita e sbotta tra monti togati e cieli struggenti, quello che gonfiava i nostri occhi. A che serve tutto questo dolore? Serve. Ci riprendiamo tutte le imprese del pirata, le stringiamo al petto e tentiamo di vivere questa definitiva sconfitta con lo sguardo fisso sulla montagna. Marco Pantani da Cesenatico, discolaccio dal sorriso di sfida, venuto su nei cortili dell’immaginazione, primo della classe nel liceo delle fiabe ardenti, rigeneratore di strade, poeta della rinascita, viandante dell’oscurità, stilista dei Campi Elisi, impressionista del giallo e del rosa, monello dei tornanti, tigrotto della Romagna, samurai maestoso del Mortirolo, è rimasto in cima. Per chi volesse trovarlo ancora una volta, deve andare in alto e ricordarlo mentre azzanna il primo cavalcavia. Abbiamo perso il nostro eroe, divorato e sputato, il nostro scollinatore dei sogni. Marco, addio. Angelo con un diavolo custode.
14 febbraio 2014 (Oggi, dieci anno dopo)
Stanchi sono i monti di non avere più chi li doma in quel modo lì. Stanchi siamo noi di non saltare più dalle sedie ogni volta che la strada s’arrampica in cielo. Non puoi sapere quanto ci manchi. A casa, oggi, con la torrida tristezza, un'infinità di visioni e la voce di Adriano De Zan. Scatta Pantani!