La strage di Hillsborough

Il calcio inglese ha ricordato la tragedia di 25 anni fa

    di Alberto Medici

Occupandomi di calcio internazionale, molto spesso mi trovo a parlare dei top player di caratura mondiale come Messi e CR7, oppure di squadroni galattici come il Bayern Monaco, il Real Madrid, il Chelsea e via discorrendo, o anche di grandi allenatori come Mourinho, Guardiola o ad esempio il “mago” Klopp. Lo scorso weekend tuttavia un evento mi ha lasciato completamente senza fiato, mostrandomi la reale differenza che c’è tra il nostro calcio e la Premier League. L’incontro era ovviamente quello di cartello, cioè Liverpool – Manchester City, ma più che la partita in sé (tra l’altro stupenda, un 3-2 emozionantissimo e tirato fino all’ultima azione, con goal decisivo dell’ex meteora nerazzurra Coutinho) quello che mi ha lasciato senza fiato è stata l’atmosfera che si respirava prima e dopo la gara.

Lo scorso è stato il weekend in cui si celebrava il 25° anniversario della strage di Hillsborough, dove persero la vita 96 persone (tifosi del Liverpool, e molti sotto i 30 anni) per quella che all’inizio venne etichettata come “furia degli hooligans”, ma poi attraverso le indagini si scoprì essere “ignoranza delle forze dell’ordine” che stiparono persone all’interno del settore ospiti oltre il doppio del limite della capienza. Questo portò un sovraffollamento che ovviamente schiacciò contro le transenne coloro che già occupavano il settore e ne provocò la morte per soffocamento. Ai tempi gli stadi inglesi non erano ancora “aperti” e con gli spalti adiacenti al campo come adesso, dunque facile capire come questa situazione poteva essere tranquillamente paragonata a quella di “bestie in gabbia”. Per tutto il pre-partita la situazione continuò e degenerò finché al 6’ del primo tempo, le persone cominciarono a scavalcare le transenne per uscire da quell’inferno. All’inizio ci fu indignazione, da parte di tutti, verso coloro che scavalcarono e invasero il terreno di gioco (tanto è vero che la polizia li tartassò e li prese a colpi di manganello), ma per queste persone era ben poco prezzo da pagare rispetto al rimanere sugli spalti a morire. Una vicenda incredibile e a tratti paradossale, che solo nel 2012 il governo inglese (col ministro James Cameron) si decise a rendere pubblica, scusandosi con le famiglie e raccontando così la verità all’intero paese dopo averla celata per 23 lunghissimi anni.

Con questo ricordo si gioca “The match of the year”: Liverpool – Manchester City. I padroni di casa devono per forza vincere per essere padroni del proprio destino, mentre ai Citizens basta un punto per restare in vetta alla Premier a 4 giornate dalla fine. La tradizione vuole che a ogni partita casalinga dei Reds, l’ingresso al campo sia preceduto dal loro inno, il loro canto di battaglia, il loro marchio di fabbrica: You’ll Never Walk Alone. Canta tutto lo stadio, dalla Kop (la curva dei tifosi più accesi) ai bambini, dalle famiglie alle persone più anziane (una di loro tiene in mano uno striscione “Justice for 96”) che magari hanno anche perso delle persone care in questa immane tragedia. Questa volta si capisce davvero a chi è rivolto l’inno. È un’atmosfera da brividi.

Le squadre entrano in campo, si dispongono come da tradizione al centro e si stringono per il minuto di silenzio. Da quando l’arbitro fischia per dare il via al ricordo delle vittime, nessun suono esce dallo stadio che fino a qualche istante prima era una polveriera: c’è un silenzio assordante, rotto solamente dal sibilo del vento. Nessuno parla, nessuno applaude, nessuno si muove. Da pelle d’oca. Intanto l’inquadratura della televisione svela un altro particolare: 96 seggiolini vengono lasciati vuoti a bordo campo, ognuno adornato con una sciarpa del Liverpool.

La partita può cominciare. Primo tempo marca Reds che aggrediscono il match con la giusta cattiveria e si portano sul 2-0 con le reti del giovane Sterling e di Skrtel. Nel secondo tempo esce invece la tecnica dei fini palleggiatori della squadra di Manuel Pellegrini che impattano il match con le reti di Silva e l’autogoal di Johnson. Quando sembra che il City abbia le forze per ribaltare del tutto il risultato e mettere così le mani sul titolo, un rinvio sbagliato del capitano Kompany, fino a lì impeccabile, mette in ritmo Coutinho che con una girata di destro vellutata trafigge Hart all’angolo sinistro della porta: 3-2.

L’arbitro fischia la fine, il Liverpool ha vinto. Steven Gerrard, capitano, bandiera e leader, al fischio finale libera la tensione accumulata e si lascia andare a un pianto liberatorio. Si capisce che il Liverpool ha fatto l’impresa. “They made the day” come si dice da quelle parti. Il capitano però ha carisma, personalità da vendere ed è stato (ed è) uno dei migliori giocatori del mondo, ma con un’unica pecca: nella sua carriera non ha mai vinto una Premier. Raccoglie a sé i compagni, in cerchio, a metà campo e gli dice: “This does not f****** slip now! Listen listen this is gone! Next time we go to Norwich, exactly the same! We go again! Come on!”. Vuole la Premier, la merita, come coronamento di una straordinaria carriera. Ha il carisma del campione. Ad animare il cuore di Steve-G c’è anche un altro fatto: la vittima più giovane della strage di Hillsborough si chiamava Jon-Paul Gilhooley, ed era cugino, di due anni più grande, proprio di SG. L’ultima frase della sua autobiografia è infatti dedicata proprio alla sua memoria, “Io gioco per Jon-Paul”, scrive Steven.





Back to Top