Ferrante, la scrittrice senza volto

L'identità dell'autrice tra congetture e ossessione

    di Maria Neve Iervolino

«Desidero poter pensare che, se il mio libro entra nel circuito delle merci, niente sia in grado di obbligarmi a fare il suo stesso percorso». Elena Ferrante, “La frantumaglia”.

Sono state fatte numerose ipotesi sull’identità della scrittrice in attività dagli anni ’90 sotto il nome di Elena Ferrante. La vera domanda tuttavia non riguarda l’identità dell’autrice senza volto, ma il bisogno ossessivo di scoprirne le coordinate anagrafiche. Intorno a tale questione nomi eccelsi della critica italiana si sono affannati, tra tutti anche un dantista del calibro di Marco Santagata, che congetturando intorno alle brevi pagine dell’esperienza pisana di Lenù, protagonista della tetralogia dell’amica geniale, ha individuato la misteriosa autrice in una docente dell’università Federico II di Napoli. Napoli quindi. Punto di partenza imprescindibile dell’indagine. Questo ventre rigonfio e squarciato probabilmente ha partorito l’autrice misteriosa, ma sicuramente ha generato la sua opera. Lo scrittore americano di origini greche Jeffrey Eugenides cita la Ferrante, popolarissima negli Stati Uniti anche per la sua partecipazione al Man Booker International Prize 2016, come parte integrante del capoluogo campano: «Probabilmente è sempre rimasta a Napoli» dice.

Quindi napoletana, ma dolorosamente: le sue opere tradiscono una profonda conoscenza del disordine e della violenza tipici della periferia cittadina che agisce al di fuori dello Stato, in un modo che solo un nativo può conoscere. In numerose interviste la Ferrante ha rimarcato la propria fuga, ma «con Napoli, comunque, i conti non sono mai chiusi, anche a distanza» scrive in un’intervista al critico Goffredo Fofi, e come per tutte le sue eroine, la città l’ha rincorsa. Questo luogo fuori dal tempo l’ha molestata seguendola, ora sotto forma di donna annegata e frantumata come durante “I giorni dell’abbandono”, ora di bambole che sembravano dimenticate come nella “Storia della bambina perduta”. Probabilmente l’unico modo per esorcizzare la città esoterica era vivisezionarla, ma nonostante questa operazione vi è rimasta attaccata, tramite il cordone della letteratura come la figlia alla madre.

Chiave di lettura fondamentale per comprendere l’opera dell’autrice è il rapporto madre-figlia, malsano, pieno di contrasti, simile a quello descritto in numerose opere da Elsa Morante. Elsa Morante-Elena Ferrante, scioglilingua, assonanza, che non può essere casuale viste le numerose citazioni dirette e indirette da parte della scrittrice sconosciuta.

Chi ha paura di Elena Ferrante? Coloro che desiderano toglierle la maschera sperando che ciò porti a svelare un qualche inganno e sminuire il suo lavoro. Ma poi è possibile svilire l’opera di un autore usando la sua biografia? Se pure la Ferrante non fosse napoletana non sarebbe comunque la voce di sirena della città partenopea? Brutale sì, violenta, corrotta, ma viva e sensualmente ambigua. Se non fosse neanche una donna ma un uomo, non avrebbe comunque il merito di avere portato alla luce le complessità della maternità e della sfera sentimentale femminile? E se le molteplici anime delle sue protagoniste non fossero riconducibili all’intimità di una sola persona?

In ogni caso qualsiasi banalizzazione oltre che pretestuosa sarebbe inutile al fine demolire un lavoro nuovo di cui l’Italia aveva bisogno per rilanciare la propria immagine culturale, schiacciata com’è, anche in patria, dagli scrittori americani contemporanei, e se a fare ciò è una donna ed oggetto di questa esportazione è Napoli, la suggestione è completa, chi ha bisogno di svelarla lo fa solo per il capriccio di distruggere. 





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