Palazzo Penna e il pegno d'amore

Si narra che venne fatto costruire da Antonio de Penna in una sola notte per una donna

    di Liberato Russo

In pieno centro storico, nei pressi di Largo Banchi Nuovi, incontriamo Palazzo de Penna, raro esempio di architettura civile rinascimentale partenopea, ubicato nella piazzetta Teodoro Monticelli, di fianco alla gradinata di Santa Barbara, dalla quale in passato si scendeva fin sulla spiaggia che arrivava a quel tempo nell’attuale Piazza Bovio.

Fu costruito nel 1409 per volere di Antonio de Penna, segretario e consigliere del re Ladislao d’Angiò Durazzo, per farne sua dimora, come si apprende dall’iscrizione nello stemma marmoreo di casa Durazzo, con i gigli angioini e la penna di famiglia, che data la costruzione nel ventesimo anno dopo l’investitura di re Ladislao avvenuta nel 1389, posto al di sopra del pregevole portale in marmo bianco ad arco ribassato con incisi sulla cornice versi del poeta Marco Valerio Marziale.

Leggenda narra che il Penna l’avesse costruito in una sola notte come pegno d’amore per una ragazza di cui s’innamorò, ma per riuscirci arrivò a stipulare un patto col diavolo: avrebbe ceduto la sua anima se questi fosse riuscito a contare i chicchi di grano presenti in un sacco; ma il de Penna raggirò il demonio quando, ottenuto il palazzo, cosparse i chicchi con della pece, di modo che, attaccandosi alle dita, Belzebù facesse confusione non riuscendo più a contare, e infuriato per il tiro mancino, si racconta che sprofondò agli inferi da una voragine apertasi nel suolo in seguito al segno della croce del de Penna, che altro non è se un pozzo ancora presente, sul fondo del quale si crede dimori ancora “o’diavulo e’ Palazzo Penna”.

Lungo i tre piani dell’edificio, attribuito all’abate Antonio Baboccio da Piperno, si fondono elementi catalani, vedi l’arco ribassato, e toscani, vedi la facciata bugnata, coronata da un cornicione sostenuto da archetti acuti sui quali si alternano decorazioni dei Durazzo.

Dal portale, adornato un tempo da statue di epoca romana, si accede dunque al cortile interno, arricchito da un portico a cinque arcate su pilastri politici dal quale s’intravede il bel giardino. In origine nel cortile si affacciavano sedici scuderie per circa quaranta cavalli e sei carrozze.

Successivamente la proprietà passò dagli ultimi eredi dei de Penna alla famiglia Rocca e dal 1558 agli Scannapieco, come dono di nozze al figlio della proprietaria Aloisa Scannapieco Capano, e restò in loro possesso per circa 150 anni, fino a quando Marco Antonio Capano lo perse per debiti di gioco.

Nel 1683 i padri Somaschi acquistarono l’edificio mettendo fine a un contenzioso tra vari pretendenti, dividendo il ricavato tra creditori e aspiranti eredi, e ad essi restò fino all’abolizione degli ordini religiosi da parte di Giuseppe Bonaparte.

Il palazzo venne poi abitato dall’abate vulcanologo Teodoro Monticelli al ritorno dalla prigionia per giacobinismo nell’isola di Favignana. e durante la sua permanenza, a restaurazione avvenuta, divenne un luogo (tollerato) di fermento culturale e politico, frequentato da studiosi, astronomi, chimici e botanici, fino alla sua morte nel 1845, quando la proprietà passò in eredità al nipote Franco, ultima notizia a noi conosciuta. L’abate vi trasferì inoltre la sua biblioteca e la ricca collezione mineraria.

Le ultime vicende ritrovano Palazzo de Penna al centro di mancati interventi restaurativi, progetti di recupero bloccati, valorizzazioni mai avvenute, abusivismi feroci e a nulla sono valsi nel 2008 gli appelli di Giorgio Napolitano e le inchieste volute dall’UNESCO, fino all’accordo del 2013 tra la proprietaria Regione Campania e la beneficiaria Università Orientale, a darsi finalmente da fare.





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