LIBRI Il lavoro perverso

Mobbing e media: le strategie del gruppo cattivo

    di Max De Francesco

Di mobbing non se ne parla mai abbastanza, ma finalmente se ne parla, soprattutto in questi tempi in cui la vertigine della precarietà del lavoro fa girare la testa a chi il lavoro lo dà e lo leva. L’arte psicopatica di calpestare e isolare un lavoratore con penose strategie di accerchiamento è nel mirino dei media. Un anno fa, i giornali dettero ampio risalto a una storia di abusi psicologici subiti da una giornalista - esclusa dal processo lavorativo a tal punto da aver prodotto nell’arco di sette anni 122 articoli, poco più di un articolo al mese - evidenziando il risarcimento, deciso dal giudice Pietro Martello, della sezione Lavoro del tribunale di Milano, nei confronti della mobbizzata: trecentomila euro. Un record per questo tipo di cause. Un certo cinema italiano, raro e prezioso, alle molestie morali sul lavoro ha dedicato un tris di film che meritano di essere citati. Francesca Comencini in Mi piace lavorare-Mobbing (2003) racconta la via crucis di Anna (Nicoletta Braschi) che, segretaria di terzo livello, con il passaggio della azienda in cui lavora a una multinazionale, si ritrova d’un tratto ad appostare una fotocopiatrice. Volevo solo dormirle addosso (2004) di Eugenio Cappuccio, invece, è tutto basato su una missione-scommessa: Marco Pressi (Giorgio Pasotti), giovane formatore del personale di una multinazionale, ha il compito di tagliare 25 dipendenti in tempi brevissimi. Se ci riesce avanzamento e soldi, altrimenti gli spetta un portasigarette come premio di consolazione. Storia di mobbing, ribellione e amore è quella di Mario Bettini (Fabio Volo) in La febbre (2005) di Alessandro D’Alatri: un geometra trentenne viene assunto al Comune dove, per serietà e simpatia, conquista tutti tranne il capoufficio che, nel furore dell’invidia, lo spedisce a controllare tombe al cimitero.

 

Se Paolo Villaggio con Fantozzi ha anticipato la tragedia del lavoratore molestato (e sfigato) e il bullismo del direttore megagalattico, non c’è possibilità di scappatoie comiche nelle storie del libro «Il lavoro perverso», sottotitolo: «Il mobbing come paradigma di una psicopatologia del lavoro». Curato da Francesco Blasi e Claudio Petrella, - rispettivamente coordinatore e direttore del Centro di riferimento regionale per il disadattamento lavorativo in Campania - edito dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, il volume raccoglie scritti di medici del lavoro, psichiatri, psicologi, giuristi e giornalisti che, mettendo in campo le proprie competenze, sono riusciti a produrre un lavoro diverso, perché pensato ed elaborato da punti di vista differenti. Impeccabili sono le descrizioni delle perverse dinamiche del mobbing che, lucidamente, ritraggono sia il mondo dei capi e capetti intenti a individuare la vittima da mettere in croce, a fiutare la debolezza ricattabile, sia l’inferno in cui precipitano i «braccati», soldati senz’armi in una guerra improvvisa e mai cercata. I campi di battaglia sono ovunque: nelle redazioni, diventate il fast food dell’informazione (da leggere il capitolo Mobbing e Media firmato da Patrizia Capua, Carla Di Napoli e Angela Frenda), nelle aziende ammalate di flessibilità, nella giungla della pubblica amministrazione. Le regole del gioco le detta l’aggressore, sempre coadiuvato da un fedele gruppo cattivo. «Mobbing», in inglese, letteralmente sta a significare «l'assalto di un gruppo ad un individuo»; per gli studiosi del comportamento animale è «l'esclusione di un individuo dal suo branco». Francesco Blasi nel capitolo La coscienza inutile scrive: «Un lavoratore viene aggredito perché uno o più dirigenti selezionati in base alla loro ferocia e capacità di sopravvivenza, agendo in un contesto che ritiene funzionale ai propri interessi la loro perversione, decidono che sia indispensabile, utile o divertente perseguitare una vittima designata, in un mondo che pensa sostanzialmente che una tale situazione sia fisiologica, necessaria o inevitabile».

 

Quindi, il massacro diventa gioco e la vita della vittima viene liquidata con un ghigno. E se l’alienazione assume il comando della (non) difesa del mobbizzato, la perversione narcisistica del capo (e del branco), sprezzante della sofferenza altrui, bombarda senza pietà il bersaglio umano con tecniche vili e strategie infantili. Le «malate» ragioni dell’inspiegabile guerra in cui è coinvolto il lavoratore molestato invalidano ogni suo tentativo di scudo tanto da far sentire la vittima carnefice di se stessa. Si capisce, leggendo i saggi del libro, che l’unico antidoto per sedare il mobbing è quello di formare intorno al braccato un «gruppo buono», che con consigli ponderati (ad esempio per sostenere le vittime «è fondamentale raccogliere una vasta documentazione delle vessazioni subite ed una memoria scritta del paziente. Questa pratica è molto utile sia per motivi medico legali, sia perché possiede una certa valenza terapeutica») e incitamenti preziosi riesce a far recuperare al malcapitato lavoratore l’autostima perduta. «Il nostro compito - sostiene lo psichiatra Blasi - consiste essenzialmente nell’aiutare le vittime a distinguere l’autorità dalla vessazione e l’errore dalla colpa, e a valutare freddamente i processi di formazione del potere che più direttamente li riguardano».  (Nella foto Nicoletta Braschi in una scena del film "Mi piace lavorare-Mobbing") 

 

Per scaricare il libro «Il lavoro perverso»

http://www.iisf.it/pubblicazioni/lav_perv.htm





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