L'italiano in caduta libera
La lingua dimenticata
di Umberto Franzese
Oggi, i giovani non sanno scrivere in italiano. La loro pagina è un ammasso di parole, un groviglio di espressioni indeterminate e confuse. “Parla bene”: il monito ci veniva rivolto da genitori e docenti se osavamo parlare in dialetto. Dovevamo curare la nostra parlata perché poteva impedirci di essere compresi dall’interlocutore. Ma la lingua nazionale era soprattutto elemento di distinzione, di valutazione, di equiparazione. Il dialetto era ritenuto un mezzo di sottosviluppo, uno strumento di scarsa formazione culturale, inespressivo, inefficace, plebeo. Dovevamo vergognarci delle nostre radici, della nostra identità. E non è più vergognoso usare, oggi, invece di termini e modi di dire nostrani, quelli inglesi? In nessun altro paese al mondo si usa mutilare, invalidare la lingua nazionale come da noi. Ogni anno nel mondo muoiono venticinque idiomi, la metà di quelli parlati sul pianeta cesseranno di esistere entro un secolo. Con le lingue spariscono non solo interi patrimoni culturali, ma anche una intera fetta di civiltà che ogni etnia custodisce nel suo grembo. E noi, introitando, facendo uso spropositato di monconi di linguaggio e di espressioni anglofone, diamo il via a quella che è una vera e propria catastrofe culturale che non ha precedenti nella nostra storia. Assumere modi di dire di lingue diverse dalla nostra, è ostacolo alla comprensione, alla comunicazione. Ma ciò che più fa male, nel caso nostro, è ledere sciupare la lingua dell’Alighieri e del Manzoni. Una cattiva abitudine che abbiamo è il disprezzo di tutto quanto ci appartiene, che è nostro. Quando muore una lingua ed anche un dialetto, va perduto un eccezionale capitale di conoscenze. L’italiano è davvero ridotto a malpartito se il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, in collaborazione con l’Accademia della Crusca, dell’Associazione per la Storia della lingua italiana, organizza l’Olimpiade dell’italiano col proposito di far fronte all’incompetenza linguistica. I giovani che frequentano le scuole medie non hanno, infatti, alcuna padronanza della lingua d’origine. Tale padronanza va acquisita con un attento studio della linguistica nel quale sono sintetizzate le più aggiornate acquisizioni della moderna scienza del linguaggio; della grammatica che risponde a tutte le domande poste dall’uso quotidiano della lingua; della storia della lingua, che attraverso il commento dei più noti testi della letteratura, traccia le linee essenziali dell’italiano dalle origini ai giorni nostri. Per le ragioni su esposte va, perciò, respinto ogni asservimento e di sottomissione ad una cultura di derivazione straniera ed invece avere in gran conto le lingue classiche. Il latino e il greco bisogna studiarli non tanto perché “allenano la mente” e perché “lingue razionali”, quanto perché sono alla base delle nostre radici.
In Italia abbiamo sempre avuto la propensione a scopiazzare dagli altri, dalla lingua ai costumi. Esiste, è vero, un tentativo di recuperare, di rivalutare i dialetti che va ricollegato alla salvaguardia delle radici, dell’identità, ma di contro la lingua nazionale si apre alla contaminazione delle lingue straniere, in primis all’inglese. In Francia, dove lo spirito nazionalistico è assai sentito, esiste un Consiglio Superiore della lingua con il compito di istillare nei cittadini la conoscenza della lingua nazionale. L’uso smodato e dilagante dell’inglese da noi sembra quasi che consenta di raccogliere un successo altrimenti irraggiungibile. Chi conosce l’inglese ha la strada spianata, gli si aprono tutte le porte, è a cavallo. Non è così, se persino l’8,35 dei laureati non è in grado di utilizzare la scrittura. L’uso e l’abuso dell’inglese esclude la padronanza della propria lingua, mentre tra gli alfabetizzati c’è scarsa dimestichezza sia con la scrittura che con la lettura. L’arte di arrangiarsi è tutta nostra. Dipendiamo più dagli altri che da noi stessi. “Noi diventammo a vicenda or francesi or tedeschi ora inglesi; noi non eravamo più nulla (…). La nazione sviluppò una frivola mania per le mode degli esteri (…). Dall’imitazione delle vesti si passò a quella dei costumi e delle maniere, indi all’imitazione delle lingue: si apprendeva il francese e l’inglese, mentre era più vergognoso il non sapere l’italiano. L’imitazione delle lingue porta seco finalmente quella delle opinioni. La mania per le nazioni estere prima avvilisce, indi immiserisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in essa ogni amore per le cose sue”. “Omnia graece, cum sit nobis turpe magis nescire latine”. Volevano le donne romane tutte parlare in greco, mentre era vergognoso che non sapessero il latino. Così Giovenale nella satira VI. Da Vincenzo Cuoco, invece, nel Saggio storico della rivoluzione di Napoli, è tratto il pensiero di cui sopra. Noi, come ieri, come oggi, essendo un popolo rinunciatario, modaiolo oltre che esterofilo, non siamo nulla, non vogliamo nulla, perché sia essere che volere ci costa fatica.