Cavalli di battaglia e ronzini

Gigi Proietti porta in tv il fior fiore dello spettacolo del passato. Ma c'è chi preferisce altro

    di Maria Regina De Luca

La trasmissione "Cavalli di battaglia" dove Gigi Proietti presenta se stesso insieme a personaggi di spicco del mondo dello spettacolo non potrebbe, in alcune sere, aver titolo più appropriato, in quanto ricca di artisti che hanno raggiunto e conservato negli anni il successo e la fama conquistati nella giovinezza. La loro carta vincente è la fedeltà a uno stile che li ha resi famosi, pur modellandosi sui nuovi tempi e sui nuovi gusti a differenza di altri, pur essi di successo, che sembrano aver rinunciato ad assumere una personale cifra espressiva. Va detto che quanti possiamo definire "cavalli di battaglia" hanno tutti superato, di qualche decennio, la soglia degli "anta" riuscendo a consonarsi col pubblico di ogni età senza cedere alle lusinghe della faciloneria, della sciattezza, del compiacimento a tutti i costi e della caduta di gusto, pur di carpirne l’applauso.

Da autentico cavallo non solo di battaglia, ma di razza, Proietti affascina gli spettatori di ogni età con i suoi compagni di cordata. E se Gastone è indubbiamente la canzone della nostalgia, piacerà anche ai giovani la ballata dell’Opera da tre soldi, e così le note di Blue moon, la luna "malinconica" in auge dal 1934 e cantata dai grandissimi, da Ella Fitzgerald a Sinatra a Presley. Qui la parola "attualità" non funziona, non fa presa. Ecco il languido miscuglio di jazz e di blues di The man I love. E l’ironico Ma che ne sai ballato da un divertito tris d’assi con Peppino di Capri, ma sono soprattutto il garbo, l’eleganza dei movimenti, il dosaggio della gestualità a far levitare lo spettacolo con leggerezza, cosa sempre più rara nelle nostre performance televisive.

Un piccolo esame retrospettivo ci induce a considerare che questi cavalli di razza sono figli della loro epoca, di quando l’educazione e le conoscenze basilari da piccole e medie culture si respiravano nell’aria, e i gli studi seri non erano riserva, come oggi, dei figli e dei nipoti di quei papà che hanno firmato le riforme perché venissero aboliti. Domenico Rea poteva permettersi di frequentare solo la scuola media tecnica, e confessa che non sarebbe mai diventato scrittore di racconti se non avesse acquisito il dono della sintesi in quella scuola di paese dove l’italiano veniva insegnato con tutte le sue difficoltà e le sue parole apparentemente inutili. Al significato di "trepido occidente" fu dedicata un’intera lezione dal professore d’italiano: che lo scrittore cita con tenera gratitudine.

Quest’apparente divagazione è dovuta al confronto tra la trasmissione di Proietti e un’altra a episodi che va per la maggiore dove tutto è così greve, molesto, modesto, compiacente e compiaciuto da potersi paragonare a una corsetta di ronzini in cerca di uno zuccherino per premio di aver trottato uniformandosi al più deteriore dei gusti del pubblico. Si tratta, beninteso, di una "captatio benevolentiae" sociopolitica di bassa lega e che assicura incassi consistenti, ma è difficile chiamare cavalli di battaglia quanti sono responsabili della loro rozza manifattura. Non lo sono e non lo saranno mai, di questo passo. E fra qualche decina d’anni, non potranno certamente allestire una trasmissione forte e delicata, ironica e toccante, intelligente e arguta, sostanziosa e coerente come quella che raccoglie intorno a Proietti attori che riescono, in questo mondo capovolto, ancora a insaporire la vita di intelligenza, di humour, di ironia e di qualche voglia di sorriso. Perfettamente incastonato nello spettacolo il monologo pervaso di un nonsense intellettuale di rara finezza di Vincenzo Salemme, che la dignità artistica della intelligenza e della cultura rendono cavallo di battaglia e di razza, anche se non ne ha ancora l’età.





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