Controtempo, viaggio nella dimenticanza
L’Alzheimer e la metamorfosi dell’amore nel libro di Enza Silvestrini
di Max De Francesco
«Spero che Dio mi concederà la grazia, nonostante tutti gli errori, di giungere all’ultima giornata con l’anima intera». Giovanni Papini chiude così La spia del mondo, raccolta di schegge poetiche del 1955, ritrovata su una bancarella di Port’Alba in una mattina di vaghezze. La sorte lo costrinse a vivere parte della sua esistenza nell’immobilità per una paralisi progressiva che gli fece perdere l’uso delle gambe, delle braccia, della vista e, alla fine, della parola. Seppur ridotto come un torso umano, continuò a dettare i suoi libri alla moglie e alla nipote, poi, quando neanche più la parola gli fu di conforto, facendosi recitare l’alfabeto, sceglieva le lettere con un segno del capo, l’unico movimento di cui era ancora capace. Nel disfacimento del corpo l’anima rimase intera. Nella disgrazia fisica conservò la grazia della memoria e dell’esperienza.
C’è un libro di poesie che racconta invece la sparizione dell’anima, la distruzione dello spirito dovuta all’apocalisse Alzheimer che uccide l’interezza, disonora gli scrigni di dentro, abbatte i templi dei ricordi. Si chiama Controtempo (Oèdipus Edizioni), scritto e diretto da Enza Silvestrini che filma la dissoluzione interiore della madre (e dell’amore) calandosi nella voragine empirica aperta dalla malattia dove «il mondo scompare/inghiottito dal buio nulla», i nomi «vanno via in qualche botola lontana», il tempo smette di girare tra accavallamenti di «ipotesi felici», vani riposizionamenti di «connessioni logiche» e «aperture di pensiero improvvise»: l’inesorabile inadeguatezza al mondo è ormai compiuta e «non c’è più modo di ritrovarsi di nuovo». Siamo tra le rovine dell’anima, costretti a scenari di macerie sul set di versi disossati, privi di punteggiatura, immensi soffi nello svanire della sintassi che vagano in una città al rogo in cui la sciagura non risparmia la sacralità dei luoghi e si lotta inutilmente per la «verità dei fatti», in un presente dilaniato, senza più una lingua comune, con «dadi vinti dalla nostalgia» nell’estremo tentativo di mettere in salvo ciò che non è «perfettamente franato» perché «c’è bisogno di una radice da piantare in esilio».
Edificatrice di una lucida poetica della perdita, la Silvestrini - di cui conosciamo bene il sentiero letterario tracciato in questi anni febbrili con opere in versi (Partenze, Diversi amori), romanzi (Sulla soglia di piccole porte) e notevoli saggi che riportano il sole sui dimenticati poeti del Sud - è campionessa nel bazzicare l’Ade e attraversare il dolore, presentandolo in tutta la sua rovinosa bellezza, senza mai cedere a rassicuranti fughe orfiche o scadere in un lirismo consolatorio, preferendo restare intrepidamente con i piedi nel vuoto e nelle intemperie, e discorrere così, in uno stato d’infinito smottamento, su ombre e tormenti con un’intonazione emotiva crescente, dal suono confidenziale che ricorda a tratti il moto lirico di Sergio Solmi, tesa a perlustrare la sofferenza, a individuarne riti e dettagli, concedendosi persino un inaspettato siparietto ironico: «per il mio compleanno/scendo all’Averno (…)/trovo Caronte seduto al bar/ a bere la terza birra/dice che la grotta/è faccenda delicata/e che hanno messo un cancello/a separare i due mondi».
L’esattezza con cui l’autrice racconta il crollo della testa materna è strettamente legata all’impeccabile struttura dell’opera, da considerarsi non una silloge di poesie ma un sedimentato poemetto scientifico sulla dimenticanza che s’apre con un prologo ispirato al II libro dell’Eneide, dove Enea narra la fine di Troia a Didone - inevitabile il rimando ai versi di Giorgio Caproni ne Il passaggio d’Enea quando l’eroe tenta invano di porre in salvo un «passato che crolla» e «al rullo d’un tamburo/ch’è uno schianto di mura, per la mano/ha ancora così gracile un futuro/da non reggersi ritto» - e procede attraverso tre sezioni che registrano l’annientamento della città-anima. Nella prima, dal titolo Destinati ad altri mari, il devastante assedio della malattia costringe a far le valigie per un viaggio ignoto verso «un nuovo continente», dove figlia e madre provano a stabilire inutili alleanze, a ritrovarsi per riperdersi «sedute qui sulle rive opposte del letto». Nella seconda, che dà il titolo al libro, la consapevolezza «dell’esile potenza di ciò che è stato» e la certezza che le stagioni girano ignorando le vicende umane spingono leopardianamente a seguire rotte illusorie, inseguire «tempi smarriti», cantare istanti e ginestre, mentre si «organizzano ronde/per tenere il fuoco vivo/ogni tanto dalla ronda/qualcuno scompare/e si procede veloci alla sostituzione/per impedire che il fuoco si spenga/bisogna senz’altro imparare a vivere». In Forme erranti, terza e ultima sezione dell’opera, il canto si rafforza, si esalta in slanci panici: ancora stagioni, piogge, estati, inverni, radi alberi, «fiori nati per sbaglio», formiche, ragni, «prede lucenti», si vaga nel palcoscenico della natura con la tenacia di chi vuole ingannare le perdite, custodire un ricordo, recuperare le voci aspre e indistinte di chi non c’è più.
Controtempo è la veglia del senso assente, è il trattato spietato sull’avvelenamento della memoria. È la metamorfosi di un amore, del più grande amore, che a un certo punto s’estranea, s’allontana, si disgrega. Inadeguato a vivere da sentimento riconoscibile si trasforma in spettro sconosciuto, incapace di stare nei giorni, involontariamente irriconoscente. Non c’è spazio per la salvezza in questo attraversamento del bosco, anche se qua e là la speranza, che altro non è che un dubbio coltivato bene, mostra ali destinate a superare il tempo: «il fatto che sia già primavera/è una deduzione di piume/tentativi di teneri voli/cadono in tanti/dalla sommità dei nidi/ e forse la specie/non conosce il dolore».